Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Oltre Dibba vs Di Maio: le altre faide grilline, e la rabbia del nord contro Lezzi

Valerio Valentini

Lo scontro tra i due nasce più che altro da scaramucce personali, vecchi screzi incancrenitisi nel tempo e nuovi divergenti brame, ma contribuisce comunque a esasperare i malumori trasversali

Roma. Con l’aria di chi sconsiglia grandi congetture, il sottosegretario grillino liquida la questione in modo brutale. “E’ che Alessandro ha bisogno di soldi e sogna di tornare a votare e fare il capo delle opposizioni al governo del centro destra”. E però, a modo loro, questi sbotti d’insofferenza che molti dei maggiorenti del M5s offrono a chi chiede chiarimenti sulle reali intenzioni del redivivo Dibba, aiutano a capire come lo scontro tra quest’ultimo e Luigi Di Maio nasca più che altro da scaramucce personali, vecchi screzi incancrenitisi nel tempo e nuovi divergenti brame, ma contribuiscano comunque a esasperare i malumori trasversali in un gruppo parlamentare sempre più disorientato. Inutile, insomma, ricondurre il tutto a una logica di correnti. E non a caso a sentirsi chiedere, forse per l’ennesima volta in pochi giorni, se si senta “più dibbattistiano o più dimaiano”, Stefano Patuanelli, capogruppo al Senato, risponde a metà tra l’ironico e il seccato: “Io sono marcatamente di sinistra, quindi ‘fichiano’; fortemente di governo, quindi ‘dimaiano’; interessato ad una rivoluzione culturale, quindi ‘dibbattistiano’; contro le modifiche ai nostri principi, quindi ‘casaleggiano’”.

 

Di Battista non ha truppe parlamentari: non le ha più, perlomeno. E la difficoltà con cui nelle scorse settimane ha provato a riattivare i canali che lo legavano ad alcuni deputati e senatori laziali sta lì a dimostrarlo. E tuttavia, la sua fregola di tornare a occupare uno scranno trova terreno fertile negli animi di alcuni colonnelli del M5s (uno su tutti Max Bugani, fedelissimo di Davide Casaleggio) che credono che, restando avviluppato nell’abbraccio della Lega, il movimento finirà con l’essere soffocato. E’ in parte la convinzione che va maturando pure Casaleggio, l’Erede, il “figlio padrone” di Rousseau per tramite della srl milanese. “Se anche Casaleggio si sta convincendo a benedire la fine prematura della legislatura, rinunciando a quegli indubbi vantaggi che l’essere il lobbista di riferimento del partito di maggioranza relativa procura, è perché prima di tutto lui deve salvaguardare il brand, e lasciare il marchio del M5s a Di Maio rischia di farlo apparire come un brand perdente”, dice Nicola Biondo, ex responsabile della comunicazione grillina.

 

E tuttavia, anche tra quanti, all’indomani della scoppola delle europee del 26 maggio, suggerivano a Di Maio di mandare tutto all’aria, ora nessuno sembra davvero disposto a dare seguito a quei bellicosi intenti. “Ora sarebbe un suicidio per il paese: per un anno abbiamo arato e seminato, con grande fatica, e tra poco germoglieranno i nostri fiori”, dice il senatore Gianluca Ferrara, uno che pure ha sempre supportato le idee – perfino quelle più sgangherate – del Dibba nazionale. All’ultima assemblea dei gruppi, il 29 maggio, Di Maio ha ribadito il concetto: “Se qualcuno vuole porre il fine al governo, lo dica. Ma sappia che significherebbe andare tutti a casa”. E nessuna mano si è alzata. Neppure quella di Riccardo Ricciardi, il deputato dissidente che ha poi chiarito di essere “critico, non contrario, verso il governo”, e che in questi giorni starebbe addirittura pensando di candidarsi come successore di Francesco D’Uva nel ruolo di nuovo capogruppo alla Camera (altro tema che sta surriscaldando gli animi nel gruppo: in lizza ci sarebbero anche Silvestri, la Ianaro e la Macina, stando ai bisbigli del Transatlantico).

 

E su questo intreccio di scomposti dissidi, nelle ultime settimane ne è emerso anche un altro, assai rilevante. Quello tra i nordisti e i meridionalisti, messo a nudo dallo stesso ministro Barbara Lezzi. La quale, nel panico che l’ha colta quando ha scoperto dell’imboscata leghista sui fondi per lo sviluppo che dal suo ministero sarebbero stati dirottati sulle regioni, e ha sentenziato: “Questo emendamento non verrà mai votato dai parlamentari del sud del M5s”. Al che tutto il quartier generale grillino è sobbalzato: “Ma è pazza?”. Del resto, non è un mistero che molte siano le divergenze su base territoriale, primo fra tutti quello sulle autonomie. Quelle per cui in Veneto e Lombardia il M5s si è speso non poco per la campagna referendaria nel 2017; quelle che al sud si cerca di sabotare. E così, mentre il senatore Vincenzo Presutto, napoletano, a fine febbraio, preparava dossier per bocciare “la secessione tra cittadini di serie A e serie B”, il deputato Federico D’Incà, di Belluno, strappava quel dossier in diretta televisiva su una emittente veneta definendolo così: “Sono solo c.....e”. Dissidio analogo è emerso nei giorni scorsi alla Camera, sempre con la Lezzi protagonista, sul riconoscimento delle Zone economiche speciali (Zes) a Venezia e Rovigo. La Lega, forte del sostegno dei grillini del nord, premeva per estendere questo beneficio storicamente destinato al sud; il ministro si è opposto, lasciando delusi gli attivisti veneti. Gli stessi a cui il deputato veneziano Alvise Maniero ha poi scritto in chat: “Siccome i nostri (Lezzi e suoi collaboratori) sono furbi, si sono impuntati a non concedere subito cinque miserabili milioni per la Zes in Veneto, ma di menarla lunga fino alla legge di Bilancio (e poi si vede). Col risultato che anche il merito di questa battaglia se lo prende la Lega, nonostante noi portavoce M5s veneti premiamo evidenziando l’enorme opportunità sia economica sia politica della misura”.