La bara di Massimo Bordin con una corona di fiori di Radio Radicale (foto LaPresse)

La voce che è morta due volte

Salvatore Merlo

Il funerale di Massimo Bordin, tra celebrazioni e ipocrisie politiche, allude a quello di Radio Radicale: “Abbiamo pochi mesi di vita”. I volti, le parole, il mondo lacerato che fu di Pannella

Se mai si fa pace con la morte, meno ancora si può far pace con una morte che allude a un’altra morte. Da mercoledì Radio Radicale trasmette quel fiato doloroso e boccheggiante, eppure appassionato e orgoglioso, quelle parole commosse e smozzicate, ora battagliere ora sommesse, quelle pause, nella voce di Ada Pagliarulo, di Giovanna Reanda e degli altri che si alternano al microfono, tutto quell’insieme di suoni, idee e sentimenti che dopo la morte di Massimo Bordin non hanno bisogno di spiegazioni. Il cordoglio degli ascoltatori, degli amici, degli appassionati, dei politici e dei colleghi, la voglia di esistere d’una comunità e di una memoria storica dell’Italia democratica e repubblicana. Eppure tutti sembrano avvertire la rete del destino scendere inesorabile, come su un pesce.

 

Se nessuno interverrà, a Radio Radicale restano pochi mesi di vita. Ciascuno invoca, come può, un santo o un miracolo

Era successo con Marco Pannella, che ha portato con sé nella tomba il Partito Radicale. Riaccade forse adesso, con Bordin, la voce che più di tutte modulava il tono e il pensiero di una radio che è però ancora viva, malgrado la vogliano uccidere, viva e vivace nel corpo di un partito invece orfano, amputato, in lite e forse in dissoluzione. “Massimo era il capo, il leader della nostra comunità”, dice il direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio. “Massimo ha deciso di morire nel momento in cui il messaggio della sua morte è più forte. Si apre per noi adesso un baratro. E’ il momento più difficile. Però dobbiamo combattere, perché glielo dobbiamo”. Il 20 maggio scadrà la convenzione con lo stato che permette la sopravvivenza di Radio Radicale, del suo servizio pubblico senza pubblicità, del suo sterminato – e aperto e libero – archivio: quattrocentotrentamila e settecento registrazioni, dodicimila sedute di Aula tra Camera e Senato, diecimila sedute di commissioni parlamentari, tremila congressi di partiti, associazioni e sindacati, settemila comizi e manifestazioni, più di tredicimila convegni, ventiseimila dibattiti e presentazioni di libri, ventimila conferenze stampa, ottantacinquemila interviste, ventunomila udienze dei più importanti processi.

 

Se nessuno interverrà, a Radio Radicale restano pochi mesi di vita. Matteo Salvini? Il presidente del Consiglio? Il presidente della Repubblica? Ciascuno invoca, come può, un santo o un miracolo, mentre il Movimento cinque stelle appare invece sempre più irrigidito in una posa dalla quale non sembra poter o voler deflettere, invocando con foga il suo scalpo ideologico: il taglio della convenzione, il risparmio di quei cinque milioni di euro in un anno che sono l’ossigeno e la vita di Radio Radicale, ma anche poco di più di quanto i parlamentari del M5s versano obbligatoriamente a Davide Casaleggio per il mantenimento della opacissima piattaforma Rousseau.

 


 

Funerale di Massimo Bordin (foto LaPresse) 


 

Ieri alle 10 e 30 del mattino, in una Roma congestionata dal traffico e scolorita dal sole, lungo la piccola strada che a Prati corre alle spalle di Piazza Cavour, una folla compatta si è radunata di fronte all’ingresso laterale della facoltà valdese, attorno alla bara di Bordin. Una folla dall’atteggiamento raccolto, che si accostava e si ritraeva, rispettosamente, offrendo alla cerimonia funebre e laica, aperta dalle canzoni dei Rolling Stones e chiusa dalle parole di Daniela Preziosi, la compagna di Bordin, un carattere di rito di piazza: un funerale senza prete e senza messa.

 

Radio Radicale non nacque per essere la radio del Partito, disse una volta Bordin, ma per mostrare come intendono l’informazione i radicali

Massimo Teodori, che con Bordin aveva un’amicizia vera e antica, e poi Emma Bonino, Paolo Mieli, Filippo Ceccarelli, Stefano Folli, Emanuele Macaluso, Marco Taradash, Furio Colombo, Fiamma Nirenstein e Luigi Contu, in mezzo alla folla anche un senatore del M5s, Primo Di Nicola, che è un ex giornalista dell’Espresso. E poi moltissimi altri giornalisti di destra e di sinistra, del Giornale e di Repubblica, del Corriere della Sera e del Messaggero, della Rai, di Mediaset, di La7, Antonio Polito e Adriano Sofri, qualche deputato del Pd, Fausto Bertinotti e Mario Mori, Renata Polverini e Ugo Sposetti, ovviamente i radicali con gli ex radicali, i pannelliani e i boniniani, ciascuno con idee, identità, pensieri, anche molto distanti gli uni dagli altri.

 

I radicali, dunque, separati. Un unico, perenne, ora latente, ora esplosivo groviglio di passioni, sentimenti e risentimenti reso più complesso e infuocato dalla circostanza che questo mondo è da sempre una specie di famigliona più o meno incasinata, dove tutti sono più o meno parenti di tutti, e spesso può capitare che siano anche piuttosto nervosi gli uni con gli altri. E allora Emma Bonino sta dentro la facoltà valdese, vicino alla bara, prende anche la parola, tra i primi. Mentre le persone che sono state più vicine a Pannella se ne stanno fuori in silenzio, tranne Rita Bernardini che si affaccia tra la folla, in uno spazio stracolmo – “Voglio ricordare Massimo, nella lotta, domenica in piazza per Radio Radicale”.

 

Ieri a Roma una folla compatta si è radunata di fronte all’ingresso laterale della facoltà valdese, attorno alla bara di Bordin

Ecco quindi in disparte, appoggiati a un muro, sulla strada, ma presenti fino all’ultimo, Maurizio Turco, Matteo Angioli e Laura Hart, le persone che Pannella amava di più. Matteo Angioli sorride con dolcezza evocando l’ironia di Bordin e il suo rapporto amorevolmente conflittuale con Pannella. “Ricordo quando nel 2002 organizzavamo il congresso a Tirana”, dice. “E allora Marco e Massimo parlavano insieme alla radio. Diceva Pannella: ‘Ci saranno credo anche Miss Nigeria, Miss Albania, e Miss Italia’. E Bordin, quasi fuori microfono, col suo tono dissacrante: ‘Beh, questo sarebbe auspicabile’”. Maurizio Turco invece freme quando sente parlare la Bonino. Gli orizzonti ormai lontani brillano ed erompono come un amore finito male. A Turco si chiede che cosa succederà adesso. Che ne sarà della radio? “Abbiamo soltanto qualche mese di vita. Forse anche meno. Abbiamo già tagliato gran parte delle registrazioni. Ma la cosa incredibile, bella, è che però le registrazioni ce le manda la gente”.

 

La salvezza di Radio Radicale sarebbe nella proroga della convenzione, una proroga contenuta in un decreto qualunque. Il leghista Massimo Garavaglia, il sottosegretario all’Economia, ha lasciato intravvedere lo spiraglio di una possibile parlamentarizzazione della vicenda. Ma chissà. Si tratterebbe di sfilare il tema dalle mani della maggioranza. E comunque il governo dovrebbe dare parere favorevole a un eventuale emendamento, o quantomeno dovrebbe rimettersi all’Aula. Ed è mai possibile? Forse no. Ed è compatibile tutto questo con la rigidità manifestata da Vito Crimi, il sottosegretario grillino che la convenzione la vuole abolire? Difficile.

 


 

Massimo Bordin (Foto Imagoeconomica) 


 

Di sicuro la sopravvivenza di una comunità tanto povera quanto carismatica non è mai gratuita. A Radio Radicale tira ancora un’aria di appartenenza austera ma ben organizzata, dove i soldi contano senza ipocrisie e ci si arrangia, si accumula per agire, per rischiare, e si arriva in fretta poveri, leggeri e liberi fino alla meta. Ai tempi di Pannella, nei momenti di crisi, che pure mai sono stati gravi come questo, il grande vecchio che pure amava la drammatizzazione pubblica e la rappresentazione scenica, si faceva silenzioso e tesseva nei rapporti con i gruppi parlamentari, con il potere, per linee interne, sotto traccia: trama e ordito. E alla fine trionfava sempre, salvando così la sua radio, quella che aveva fondato a casa sua, un giorno del 1975. Ma i tempi sono cambiati, c’è stato uno slittamento di lingua e di classe, un’altra politica è al potere, e utilizza una grammatica inavvicinabile, che sembra sgorgare dagli umori del sottosuolo. Dunque partono gli appelli, le raccolte firme su change.org, i tentavi terminali di far cambiare idea a chi però non sembra nemmeno avercela un’idea che non sia la furia.

 

Così ieri per oltre due ore, alla facoltà valdese, accanto alla bara di Massimo Bordin, si sono alternate voci e parole. E certo, come sempre accade in questi casi in Italia, c’è anche chi, pochi per la verità, ha raccontato aneddoti che nessuno potrà smentire, chi si è sostituito al morto parlando di sé, vanità e stranezze, se non opportunismi. Il profilo social della lista +Europa si è spinto fino a pubblicare la foto di Bordin con il simbolo del partito stampigliato sopra, una cosa che si può immaginare a Bordin non sarebbe piaciuta, visto che s’infastidiva persino con chi lo etichettava chiamandolo radicale, figurarsi se avesse saputo che da morto lo avrebbero tesserato a +Europa.

 

La sopravvivenza di una comunità tanto povera quanto carismatica non è mai gratuita. Gli appelli, le voci e i ricordi

C’è stato persino chi, nell’Aula del Parlamento, mercoledì scorso, aveva tentato di rubare al defunto un po’ della sua grandezza: si è celebrato il morto per rubargli la vita, con gli interventi scombinati e balbettanti dei 5 stelle, con il tweet analfabeta di Crimi che definiva Bordin “professionista serio e preparato”. Da quando i valletti danno patenti agli uomini liberi? E insomma tutto un cordoglio artificiale, non solenne ma svagato, non austero ma scombiccherato, sconclusionato, tanto che bene ha fatto Vittorio Sgarbi, a Montecitorio, a un certo punto, a esprimere, certo a modo suo, il fastidio epidermico, viscerale per quel diaframma ipocrita e stupido: “Quelli che oggi piangono Bordin hanno chiuso Radio Radicale: o la riaprono dopo la morte di lui e tutti insieme rinnegano quella stupidaggine del dottor Crimi e del dottor Di Maio (anzi, dottore mai), oppure non ha senso il loro pianto verso uno che hanno umiliato”. E invece forse, allora, per celebrarlo senza tradirlo, bisognerebbe studiarlo Bordin. Farne oggetto di ragionamenti, incrementarne la memoria magari comprendendo che cosa significhi e abbia significato Radio Radicale per l’Italia, per la sua memoria e per la sua memoria storica, qualsiasi cosa questo voglia dire oggi.

 

 

Bordin andrebbe clonato, proprio a Radio Radicale. Nel senso che andrebbe replicato quel modello di giornalista che conduceva la rassegna stampa e conduceva sé stesso nel mondo, come ha detto Emanuele Macaluso ieri mattina, “rispettando le idee degli altri anche quando le avversava”, evitando dunque di interpretare Stampa e Regime, la cui conduzione adesso si alternerà di settimana in settimana, come fosse un megafono di parte. Perché l’esercitazione di aperta polemica politica, da quel microfono, in realtà, non soltanto non aiuta Radio Radicale ma probabilmente non rispetta nemmeno quella tradizione di servizio pubblico che a oggi costituisce l’argomento più importante a sostegno della campagna per la sua salvezza. “Radio Radicale non nacque per essere ‘la radio del Partito Radicale’”, disse una volta Bordin, “quanto piuttosto per tentare di dimostrare concretamente, attraverso un’opera da realizzare, come i Radicali intendono l’informazione. Creare un dato emblematico, in maniera sostanziale e non astratta, di quello che il servizio pubblico dovrebbe fare”. I radicali volevano smascherare l’uso che la politica fa della Rai.

 

Insomma, archiviato il funerale, bisognerebbe davvero cominciare a studiare Bordin e la vita così mossa di Radio Radicale, proprio come ha detto ieri mattina anche Furio Colombo nel suo intervento alla cerimonia laica, a un passo dalla bara sormontata da una sola e composta corona di fiori e dal bel ritratto che gli fece Oliviero Toscani. Conoscerlo significa valorizzare le ragioni di un giornalismo che in lui, come per miracolo, è stato attraversato da ruscelli, da torrenti, da fiumi di ironia e di anticonformismo e di grande, grandissima eleganza e passione, con la capacità, nemmeno ricercata, di essere rispettato sempre anche da quelli con i quali lui non era d’accordo mai.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.