Massimo Bordin (foto Imagoeconomica)

Massimo Bordin, che peccato

Adriano Sofri

Era diventato molto bello e singolarmente elegante. Le sue dispute con Marco avrebbero meritato il teatro

Massimo Bordin, che ormai somigliava a Donald Sutherland e viceversa – non so se Sutherland sia così intelligente – era diventato molto bello e singolarmente elegante, con un vestito di lino chiaro invece dello scontroso impermeabile in cui sembrava aver avvolto le vite precedenti. Si intuiva che avesse una nuova ragione per essere felice, o quasi. Tossiva, certo, e a sentirlo si stava in pena e a volte ci si arrabbiava forte – quei pensieri invadenti che si pensano fra sé e sé, ma smettila di fumare, accidenti, curati – diceva “Chiedo scusa” e ricominciava.

 

 

Mi ricordo ora che ci furono anche periodi, in una così lunga fedeltà, in cui dava l’impressione di non poterne più di quell’obbligo mattutino rigido come un servizio militare, e improvvisava un po’ e tagliava corto con le citazioni, ma le impazienze duravano poco. Radio Radicale ha, per conto degli italiani, un archivio leggendario, e Massimo era a sua volta un personale archivio della cronaca quotidiana di questo paese, e la cronaca quando dura tanto e si fonde con la memoria si guadagna il nome maltrattato di storia. Come tanti altri (dovremmo radunarci tutti oggi simbolicamente, da qualunque parte proveniamo) quando improvvisamente volevo sapere qualcosa, e farmela spiegare, gli telefonavo: nemmeno una volta mi ha detto di chiamarlo in un altro momento, che aveva da fare. Aveva un daffare strepitoso. Da quando dei parvenus di miserabile potere, Hyksos redivivi, hanno deliberato di incenerire Radio Radicale (qualcosa devono pur lasciare ai loro eredi) e si è levata una barricata di parole leali e offese a rivendicare la Radio come si fa con un bene comune, il primo dei riconoscimenti va naturalmente alla rassegna stampa, eppure si chiama Stampa e regime, e a Massimo. Giusto, e c’è da rallegrarsi quando i riconoscimenti arrivano in tempo. 

 

Massimo però aveva una sensibilità e una cultura straordinariamente versatili, dissimulate dalla discrezione e dalla scelta di fare da spalla agli altri: a Fiamma Nirenstein su Israele, a Sabrina Gasparrini sul medio oriente, a Giovanna Pajetta sugli Stati Uniti… Fare da spalla gentilmente e apparentemente, perché teneva salda la barra, e la prova esemplare era la conversazione settimanale con Marco Pannella. Marco straripava com’è bene per lui e Massimo lo teneva ancorato alla terra con un filo leggero ma ostinato, irriducibile. Succedeva che quell’essere riportato alla terra finisse per irritare Marco e renderlo addirittura capriccioso, Massimo sembrava rassegnarsi e ritirarsene con qualche Va be’, ma era pronto a ricominciare. Là ricordava davvero lo scrivano Bartleby. Pensai, e lo proposi (potevo, volevo bene ad ambedue) che trasferissero tal quali quei loro dialoghi degli ultimi tempi sulla scena di un teatro, istruttivo come una scuola quadri e stupefacente come una pièce di Beckett. Del resto Massimo aveva un gusto letterario finissimo e da quando sul Foglio era comparsa la sua rubrica quotidiana noi vecchissimi rubrichisti, io almeno, reso stucchevole dal tempo, eravamo estasiati dalla precisione, la tenacia e la verve. La giustizia, quella giusta, perde moltissimo con lui. Non potrà mai più esserci uno puntiglioso come un trotskista dopo la persecuzione, agguerrito come un giurista e forte di una scettica ironia verso i cospiratori. Questo giornale ha perso due voci che erano fraterne e complementari, Vincino e Massimo, e non è facile. Rinuncerò ai ricordi personali, siamo in tanti ad averli, teniamoceli cari. Ne riprendo uno pubblico, appena un’immagine, di qualche anno fa, in un corteo romano, il primo in cui camminavano insieme ma separati due partiti radicali, Massimo c’era naturalmente, un po’ ai bordi, piuttosto solo, dentro l’impermeabile spiegazzato, provai a infilarmigli a fianco. Vediamo se davvero avranno l’impudenza di ammazzare la radio, la nostra piccola cattedrale – la compagna delle mie notti. Oggi sento di Massimo e ho solo un pensiero: che peccato.

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