Luigi Manconi (Foto LaPresse)

L'ineffabile spigolosità laconica di Bordin nel ricordo di Manconi (e un'imitazione di Bollani)

Marianna Rizzini

Le simpatie trotskiste, l'antistatalismo e l'ossessione per il particolare. Il giornalista di Radio Radicale visto da vicino

Roma. Non era una rassegna stampa normale, quella di Massimo Bordin. Non lo era per la voce, per i commenti a margine, per i “beh” che facevano indovinare una riserva tanto rispettosa quanto inequivocabile, per i colpi di tosse, per il montaggio dei pezzi, per gli andirivieni tra una pagina e l’altra. “Meglio dell’originale lettura dei giornali”, dice Luigi Manconi. E il senso è letterale: “Ascolto la rassegna stampa di Radio Radicale da sempre, ritenendola indispensabile, e da tredici anni, cioè da quando sono diventato cieco, addirittura ineludibile, necessaria come l’aria che respiro”.

 

Il rapporto tra Bordin e il Manconi sociologo e senatore ha avuto un inizio buffo: “Premetto che con lui non ho mai né pranzato né cenato”, dice Manconi. “L’ho incontrato una sola volta dal vivo a casa di amici comuni. Poi neanche un caffè. Questo per dire che la sua riservatezza era davvero inaccessibile”. Ma quell’incontro casuale è diventato “qualcosa di simile a un’amicizia”, dice Manconi, “quando, nel corso di una rassegna stampa, Bordin fece uno sberleffo nei miei confronti”. Motivo: l’aver Manconi partecipato come ospite al matrimonio di Michele Santoro. “Per qualche motivo la cosa gli era sembrata poco opportuna, non riesco a immaginare il perché, e leggendo la cronaca scarna di quell’episodio aveva fatto una battuta sarcastica. Io avevo replicato con una della mie classiche repliche, molto pedante e molto pignola”. Bordin aveva risposto con un secondo sberleffo, e Manconi a quel punto si era arreso. “Ma da quello scambio è nato un rapporto di grande cordialità”, dice, “proseguito negli anni fino a qualche settimana fa”.

 

Se deve definire Bordin, Manconi dice: “Intransigente e intrattabile”, ed è un complimento. “In tutti questi anni c’era tra noi questa abitudine: lui richiedeva – e allo stesso tempo mal sopportava – che io gli segnalassi eventuali errori o imperfezioni. E io, con la mia solita pedanteria e pignoleria, lo facevo. Lui a volte mi era grato e mi rispondeva con affetto, ma a volte dalla mancata risposta intuivo che evidentemente riteneva che mi fossi preso troppa confidenza”. Un particolare illuminante, dice Manconi, lo riferisce l’amico di entrambi Silvio Di Francia: “L’attività di lettore professionale di giornali Bordin l’ha sperimentata per la prima volta a Radio Città Futura, quando la radio si è trasferita in via dei Marsi, dove c’era un collettivo trotskista di cui Bordin era membro”.

 

  

La vicinanza aveva favorito l’incontro, “e di conseguenza l’appassionarsi di Bordin al giornalismo e alla lettura dei quotidiani”. “A quelle simpatie trotskiste mai sconfessate do più di un significato”, dice Manconi. “La sua talvolta maniacale cura del dettaglio a quello rimanda, sotto il profilo culturale: a quell’acribiosa passione e a quell’accanito zelo per il particolare, una sorta di ossessione oltre che una cifra professionale. Bordin a mio avviso rappresentava un incontro particolarmente felice tra la fedeltà da eretico al movimento operaio – e non è un ossimoro – e l’amore per l’innovazione politica e culturale rappresentata dal radicalismo, in particolare quello di Marco Pannella ma anche, nella sua origine storica, dal radicalismo dell’800. Da Bordin mai si è sentita una frase che non rispettasse il valore del lavoro salariato, della classe operaia, degli ultimi nella scala gerarchica”. Era forte in lui, dice Manconi, “l’antistatalismo proprio dei radicali e dei liberali di sinistra e al tempo stesso la capacità di mettere sempre al centro l’essere umano più indifeso, più oltraggiato. Bordin faceva una rassegna stampa riuscendo sempre incredibilmente a essere plurale e pluralista. Ma attenzione: se emergeva un conflitto che andasse all’essenziale della questione – che si parlasse dei rider o dei lavoratori precari delle campagne – lì emergeva la sua intransigenza. Su quello non cedeva a nessuna fascinazione liberale. Era un caposaldo, un segno che rimandava alla sua appartenenza a quel minoritarismo eretico”.

 

  

Poi c’era il Bordin “conoscitore dei processi”. “Credo che nessuno abbia fatto una rassegna stampa con una simile attenzione all’attività processuale del nostro paese”, dice Manconi, “con quella puntualità nel fare connessioni, nel ricostruire vicende processuali anche lontane nel tempo, nel mettere a nudo le miserie del giustizialismo”. Non vuole sentire parlare di Bordin “come di un conduttore radiofonico”, Manconi: “Era un giornalista di classe, come ha dimostrato durante la lunga direzione di Radio Radicale e negli articoli quotidiani per il Foglio. Conosceva la storia, non soltanto in virtù della sua età ma perché la studiava. Era capace di ricordare tutto del sindacalismo bracciantile, da cui la sua simpatia per Emanuele Macaluso”.

  

 

E, ripensando a Bordin, Manconi ha un dubbio che è anche un po’ una suggestione: “Mi viene da pensare che Bordin, con quel cognome così veneto, non sia mai stato al Nord. Conosceva benissimo Roma, Napoli e Palermo, conosceva la toponomastica di queste città e la loro antropologia, i quartieri e il loro costume anche criminale. La rete che li imprigionava, la storia sociale”. Dopodiché, dice Manconi, “faremmo torto alla verità del suo animo se non ricordassimo la sua spigolosità. Ho una memoria nitidissima delle sue conversazioni domenicali con Pannella, prima mandate in onda in diretta e poi, nel corso della stessa sera, replicate due volte. Momenti strepitosi di radio verità in cui la tensione tra i due era addirittura brutale, ed emergeva sia dalla inarrestabile logorrea di Pannella sia dall’ineffabile laconicità di Bordin”. E spera, Manconi, che Radio Radicale tiri fuori dai meandri del prezioso archivio “una cosa che forse sono l’unico a ricordare. Esiste una mirabile imitazione di Bordin fatta da Stefano Bollani, le cui virtù di imitatore sono pari a quelle di musicista: Bollani si trasformava in un Bordin che, in un crescendo wagneriano, afferrava i giornali appena letti, li appallottolava, li strappava in mille pezzi, li sbranava, ululando tra colpi di tosse e sbuffi di fumo. Una dichiarazione d’amore inconsapevole da parte di uno che, probabilmente, Bordin neanche l’aveva mai visto personalmente”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.