Milano, corso Garibaldi: installato nella notte un quadro che ritrae mano nella mano Matteo Salvini, Virginia Raggi e Luigi Di Maio

Un paese ostaggio di un'alternativa fake

Claudio Cerasa

Dal caso Sea Watch (l’indagine) a Raggi (il litigio). Le armi di distrazione di massa funzionano se a essere distratta è l’opposizione. Perché tira più un pelo di Salvini che un carro di buoi del Pd (e perché la normalizzazione del Truce passa da Roma)

Una delle principali caratteristiche del governo del cambiamento, e in particolare del ministro dell’Interno Matteo Salvini, è quella di usare in modo disinvolto un arsenale politico molto particolare all’interno del quale si trovano custodite le armi di distrazione di massa. Quando l’economia va male, quando il debito pubblico sale, quando la crescita diminuisce, quando il lavoro cala, quando la disoccupazione aumenta, quando il deficit peggiora, quando i consumi ristagnano, quando la fiducia crolla, quando le esportazioni rallentano, quando i mutui si alzano, quando i prestiti si fermano, per un politico tanto ambizioso quanto irresponsabile avere delle buone armi di distrazione è vitale per spostare l’attenzione degli elettori lontano dalla realtà.

 

Il ministro Salvini è un maestro della distrazione di massa: da quando si trova alla guida mediatica del governo ha fatto la sua fortuna trasformando in un’emergenza costante il tema dell’immigrazione e non c’è dubbio che nei prossimi giorni trasformerà in un assist a suo favore anche la nuova indagine a suo carico (e a carico anche del premier Conte, del vicepremier Di Maio, del ministro Toninelli) per sequestro di persona riferita a un episodio risalente alla settimana compresa tra il 24 e il 30 gennaio scorso, quando, in una delle sue ripetute violazioni del diritto del mare, il ministro dell’Interno decise di non autorizzare per giorni lo sbarco di 47 migranti a bordo della nave Sea Watch 3 (il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che da mesi mostra uno straordinario allineamento con il ministro, ha avanzato una richiesta di archiviazione, ma sarà il tribunale dei ministri a decidere se portare il caso Sea Watch all’attenzione della giunta per le immunità).

  

La novità degli ultimi giorni è che accanto all’arma di distrazione di massa dell’immigrazione la Lega ha scelto di investire mediaticamente su un’altra emergenza (stavolta meno fittizia dell’immigrazione) chiamata Roma. Salvini ha deciso di usare Virginia Raggi come un punching ball da colpire per indirizzare i colpi che per il momento non può sferrare direttamente al partito che esprime il sindaco della Capitale d’Italia e ieri mattina ha detto che non rifarebbe l’errore commesso nel 2016, quando come un Galli della Loggia qualsiasi invitò a votare per il M5s al ballottaggio di Roma. Molti osservatori hanno scelto di utilizzare la polemica con il sindaco per dimostrare che Salvini non vede l’ora di dire a Di Maio quello che oggi dice a Raggi.

 

Ma a guardar bene il duello tra Salvini e Raggi offre altri due spunti di riflessione sui quali varrebbe la pena soffermarsi. E’ vero che per Salvini parlare del tema Raggi è un modo per non parlare del tema economia (ieri Bankitalia ha rivisto al rialzo – ripetiamo, al rialzo – il livello del debito pubblico del 2018, aggiungendo 5,3 miliardi in più rispetto a quanto comunicato in precedenza) ma la questione dello scontro Salvini-Raggi è gustosa da mettere a fuoco perché ci dice qualcosa di interessante dello stato di salute dell’opposizione prima ancora che dello stato di salute della maggioranza. Roma è una città che da anni si trova in una condizione difficile da definire normale. E’ sommersa dai rifiuti, gli alberi cadono come pioggia, le buche inghiottiscono i romani come piante carnivore, le scale mobili si accartocciano come fossero di cartone, il centro della città è in mano agli abusivi, i turisti urinano allegramente in ogni angolo delle piazze, le grandi aziende scappano da anni, gli investimenti sul futuro come le Olimpiadi sono stati trasformati in un problema, i principali collaboratori del sindaco sono stati arrestati, tre importanti stazioni della metropolitana sono chiuse da mesi e Roma resta l’unica città al mondo in cui quando esplode un autobus i cittadini prima di pensare all’Isis pensano all’Atac.

 

In questo scenario, vissuto con spirito di adattamento sorprendente e indolente da parte dei romani, da mesi impegnati a dedicare le proprie risorse all’organizzazione nel minimo dettaglio di tutti i ponti presenti tra aprile e maggio, il dato che emerge con forza dallo scazzo tra Salvini e Raggi è che in una città del genere l’opposizione dovrebbe banchettare, organizzando ogni settimana manifestazioni con i sacchi della monnezza al posto dei gilet gialli, mobilitando periodicamente i cittadini sotto al Campidoglio, usando i social network non per promuovere libri ma per promuovere cortei. E invece, in modo del tutto sorprendente, a quasi tre anni dall’arrivo del buco nero Raggi a Roma si può dire che tiri più un pelo di Salvini che un carro di buoi del Pd.

 

E per capire perché a livello nazionale l’opposizione non buca (e il ragionamento non vale solo per il Pd) è sufficiente guardare quello che succede a Roma, dove pur essendo tutta la classe dirigente del nuovo Pd ben radicata nella Capitale (Zingaretti è di Roma, Gentiloni è di Roma, Zanda è di Roma, Calenda è di Roma) è possibile che sia la Lega prima degli altri a presentare e a lanciare un’alternativa a Virginia Raggi. E tutto questo può succedere perché Roma, per Salvini, non è solo la città della pessima Raggi, ma è anche la città dove con più semplicità può maturare una legittimazione del salvinismo e una normalizzazione progressiva del trucismo come già successo nel 2016 con il grillismo – che ha iniziato a essere considerato presentabile anche grazie al sostegno dato dall’establishment romano a Virginia Raggi tre anni fa. Salvini ha dimostrato di essere un professionista delle armi di distrazioni di massa. Ma se le armi di distrazione funzionano è anche perché tra le masse distratte non c’è solo quella composta dagli elettori. C’è anche quella composta da un’opposizione che da destra a sinistra non sembra ancora capace di dettare l’agenda e di fare i conti con la parola più importante per una democrazia in sofferenza: essere, semplicemente, l’alternativa.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.