Matteo Salvini (foto LaPresse)

Un leader tutto chiacchiere e diversivo

Claudio Cerasa

Cambiare le regole, non violarle. Lampedusa ci ricorda perché non si può scommettere su Salvini come uomo di stato

E’ successo con la nave Diciotti, è capitato di nuovo con la Mare Jonio. Da nove mesi a questa parte, il governo Salvini, guidato per interposto avvocato “antani” del popolo, non perde occasione, quando si parla di immigrazione, di calpestare lo stato di diritto, di violare le convenzioni internazionali e di passare come una ruspa su tutte le leggi che regolano la materia del soccorso in mare. E’ successo con la nave Diciotti, è capitato di nuovo con la Mare Jonio. Da nove mesi a questa parte, ogni volta che si presenta l’opportunità, e l’opportunità si presenta casualmente sempre a ridosso di una campagna elettorale, il governo Salvini fa quello che gli elettori di Lega e M5s si rifiutano spesso di riconoscere. Sceglie di violare una convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (si chiama Unclos, è stata firmata nel 1982) che sancisce che ogni stato debba esigere che il comandante di una nave presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita il più velocemente possibile e che obbliga ogni stato costiero a promuovere l’istituzione, l’attivazione e il mantenimento di un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare. Sceglie di violar una convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (la cosiddetta Solas, firmata ad Amburgo nel 1974) che attribuisce allo stato di primo contatto l’obbligo di soccorrere le persone in pericolo in mare, di coordinare le operazioni di salvataggio e di garantire che vengano presi accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le proprie coste. Sceglie di violare una convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (la cosiddetta Maritime Security Committee) che obbliga gli stati a garantire che sia prestata assistenza a ogni persona in pericolo in mare senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona – o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata – a fornirle le prime cure mediche o di altro genere e a trasferirla in un luogo sicuro. Sceglie di violare l’articolo 10 ter del decreto legislativo numero 286/98 in base al quale la circostanza che le persone a bordo di una nave non siano solo naufraghi ma anche migranti non giustifica alcuna differenziazione di trattamento nella procedura di sbarco in quanto l’attività di prima assistenza e soccorso può essere svolta al di fuori dei centri istituiti soltanto per il tempo strettamente necessario all’adozione dei procedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello stato. Sceglie di violare una direttiva firmata nel 2015 dal comando generale del Corpo delle capitanerie di porto, chiamata Sop (Procedure sperimentali per l’individuazione del Pos, place of safety, nell’ambito di operazioni di salvataggio marittimo connesse all’emergenza dei flussi migratori via mare), che ha statuito che nel momento in cui un paese assume il coordinamento delle operazioni di soccorso deve minimizzare i tempi per il trasporto delle persone assistite in un luogo sicuro ed evitare indebiti ritardi nello svolgimento delle operazioni di sbarco. Sceglie di violare – cosa che, prima dello sbarco, era successa anche con il caso della Mare Jonio – le leggi che impongono al Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione (a) di non eludere le richieste di place of safety, (b) di avere cura di limitare per quanto possibile la permanenza a bordo delle persone soccorse e (c) di fare subire alle navi soccorritrici la minima deviazione possibile rispetto al viaggio programmato. Sceglie di violare l’articolo 605 del Codice penale che delimita il perimetro degli atteggiamenti relativi all’ambito del sequestro di persona e che per essere violato, come ha ricordato il tribunale dei ministri di Catania a Salvini, non ha bisogno di “un dolo specifico ma anche di un dolo generico consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima la illegittima restrizione della sua libertà fisica intesa come libertà di locomozione”.

 

Lo sbarco e il governo dei bluff

La storia della nave Mare Jonio – la ong italiana che lunedì scorso ha soccorso 50 persone che si trovavano a bordo di un gommone che imbarcava acqua al largo delle coste della Libia e che per due giorni, prima di poter sbarcare a Lampedusa, è stata in ostaggio di un governo che pretende di chiudere i porti senza averli mai chiusi, servendosi di una circolare diffusa lunedì sera dal ministero dell’Interno (il sindaco di Lampedusa, delizioso, ha detto che i porti sono aperti, ha detto di avere saputo della circolare del ministro Salvini ma ha ricordato che in mare esistono i trattati, non le circolari) – può essere raccontata concentrandosi come abbiamo fatto fino a questo punto solo giocando con gli aspetti giuridici, solo giocando con le violazioni delle convenzioni che testimoniano come il ministro Salvini sia un ministro che agisce fuori dalla legge, solo provando a dimostrare come il Truce abbia agito, come sospettato dal tribunale dei ministri di Catania, al di fuori delle finalità del proprio esercizio del potere conferitogli dalla legge, “in quanto le scelte politiche non possono ridurre la portata degli obblighi degli stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro”. Eppure nella storia della Mare Jonio, come in tutte le altre storie che riguardano il diritto del mare violato dal trucismo di governo, c’è una storia importante che riguarda un aspetto più politico che giuridico relativo a un tratto cruciale della traiettoria del ministro: Salvini vìola le leggi non per questioni legate al suo bullismo, ma per questioni legate alla sua incapacità. L’incapacità, in questo caso, non è tanto quella di saper trasformare in voti ogni imbarcazione tenuta in ostaggio in mare, cosa che finora gli è sempre riuscita benissimo, ma è quella di essere costretto a violare le regole a causa del più grande fallimento registrato in questi nove mesi dal ministro dell’Interno: la sua incapacità, per l’appunto, a cambiare le regole che non vuole rispettare.

 

Differenza tra capri espiatori e soluzioni

Il tribunale dei ministri di Catania, nella sua richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini sul caso Diciotti, su cui oggi si esprimerà il Senato, ha centrato il punto quando ha detto che “dietro l’attendismo che ha portato il ministro dell’Interno a non esitare tempestivamente la richiesta di Pos (la determinazione del place of safety, ndr) non vi fossero ragioni tecniche ostative allo sbarco bensì la volontà politica del senatore Salvini di portare all’attenzione dell’Unione europea il caso Diciotti per chiedere ai partner europei una comune assunzione di responsabilità del problema della gestione dei flussi migratori sollecitando una redistribuzione dei migranti sbarcati in Italia”. In questo senso, il bullismo di Salvini è indice più di un tratto di debolezza che di forza per almeno due ragioni. Da un lato, in nove mesi di chiacchiere e diversivo, Salvini non è riuscito né a cambiare in Europa un trattato che aveva promesso di cambiare (quello di Dublino, che impone l’esame delle richieste d’asilo dei migranti al primo paese di sbarco) né di imporre tra i paesi europei una solidarietà diversa dalla volontarietà della redistribuzione (e se questo non è avvenuto la responsabilità è anche del governo italiano che nel Consiglio europeo di fine giugno si è comportato da utile idiota del nazionalismo orbaniano, accettando la volontarietà nello smistamento dei richiedenti asilo nel resto d’Europa e non contrastando la richiesta dei paesi di Visegrád di rendere possibile ogni modifica del trattato di Dublino solo con decisioni all’unanimità). Dall’altro lato, però, nell’approccio truce scelto dal ministro dell’Interno per governare un problema come quello degli sbarchi risolto ormai da tempo, e prima ancora che il Truce diventasse ministro, c’è la spia di un altro problema che rivela il grande limite del salvinismo: la sua incapacità di mettere in campo un profilo politico pragmatico diverso da quello seguito finora nel corso della sua perenne campagna elettorale. Quello che vuole dimostrare Luca Casarini, lo storico attivista di sinistra a capo della missione Mare Jonio, è indifferente per il futuro dell’Italia. Quello che potrebbe dimostrare Salvini sull’immigrazione è invece più rilevante per il futuro del nostro paese. In molti sperano che prima o poi il ministro dell’Interno svesta i panni dell’agitatore del popolo per indossare gli abiti dell’uomo di stato. Ma più passa il tempo e più diventa evidente che nell’armadio del Truce tra i tanti travestimenti possibili non c’è l’unico che servirebbe all’Italia: quello di un leader affidabile capace di offrire all’Italia non una timeline di capri espiatori ma un filotto di soluzioni possibili. A galla, a largo di Lampedusa, non c’era solo la storia di 50 migranti: c’era la leadership di un leader tutto chiacchiere e diversivo che ogni giorno dimostra di essere incapace a trasformare il suo consenso in una leva utile per cambiare davvero l’Italia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.