Marcello Di Vito (foto LaPresse)

Da De Vito alla Diciotti

Claudio Cerasa

Lo stato di diritto ha un grosso guaio non solo con i barbari giustizialisti ma anche con i buffoni del garantismo

Mettete insieme la reazione selvaggia del Movimento 5 stelle di fronte all’arresto del presidente grillino dell’Assemblea comunale capitolina accusato di corruzione dalla procura di Roma, la reazione isterica della Lega di fronte all’iscrizione nel registro degli indagati della procura di Agrigento del comandante della Mare Jonio accusato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, la reazione medievale del partito di Luigi Di Maio di fronte all’iscrizione di Nicola Zingaretti nel registro degli indagati della procura di Roma con l’accusa di finanziamento illecito, la reazione dei farlocchi liberali per Salvini di fronte a tutti coloro che da settimane invitavano il ministro dell’Interno a non aver paura della giustizia e a farsi processare sul caso Diciotti e capirete chiaramente perché l’Italia di oggi non ha un grande problema solo con gli infametti del giustizialismo ma lo ha anche con i buffoni del garantismo.

 

Le storie che abbiamo elencato in modo apparentemente sconnesso sono legate in realtà da un unico grande filo conduttore che coincide con una particolare forma di barbarie culturale che da anni governa il dibattito politico del nostro paese: la convinzione che debba esistere una verità giudiziaria che prescinde da quella processuale e l’idea che una qualsiasi verità diversa rispetto a quella imposta dal circo mediatico debba corrispondere a una forma di giustizia ingiusta. Gli infametti del giustizialismo e i buffoni del garantismo sono tutti coloro che, piuttosto che combattere l’orrore del circo mediatico-giudiziario, usano l’essere giustizialisti o l’essere garantisti non per difendere lo stato di diritto ma una propria idea.

 

Difendere i valori non negoziabili di uno stato di diritto significa riconoscere che un indagato deve essere considerato innocente fino a prova contraria non perché appartenente a questo o a quel partito o a questa o a quella corrente ma semplicemente perché è così che prevede la Costituzione che considera non colpevole fino a sentenza definitiva chiunque, anche una persona arrestata per corruzione (articolo 27). Gli infametti del giustizialismo, invece, usano il moralismo per condannare i politici indagati ma non amati, come De Vito (da anni al centro di duelli a colpi di dossieraggio con il mondo Raggi-Di Maio) e come Zingaretti, e usano il garantismo per difendere i politici amati, come Chiara Appendino.

 

Sono infametti del giustizialismo quelli che, dopo averci insegnato che le procure hanno sempre ragione, si improvvisano garantisti quando il proprio alleato di governo chiede l’immunità per non rischiare di dover rispondere di fronte a un giudice dell’accusa di sequestro di persona aggravato e tornano a essere giustizialisti quando a essere indagato non è il ministro dell’Interno ma il comandante di una nave ong.

 

Sono buffoni del garantismo, infine, tutti quei finti liberali alle vongole che, provando ogni giorno dalle loro gazzettine a convincerci che Salvini è il vero erede di Luigi Einaudi e di Silvio Berlusconi, tentano di spacciare il dovere di difendere i diritti di un politico indagato nel dovere di considerare ogni inchiesta contro un politico come un’indagine mossa da un pregiudizio ideologico. La novità del cambiamento antisistema è che la costante tensione tra il populismo e lo stato di diritto non emerge in modo drammatico solo quando scendono in campo i cialtroni del giustizialismo – che in un sistema mediatico subalterno alle procure e in un processo penale sbilanciato sull’accusa ci sguazzano come i maialini nel letame – ma emerge anche quando scendono in campo i buffoni del garantismo, pronti ad attaccare con le armi del giustizialismo chiunque non capisca che il proprio idolo è un perseguitato della magistratura, salvo poi chiudere un occhio quando il truce dell’Interno, oltre che a indossare i panni della polizia, spiega anche chi bisogna arrestare e chi no.

 

Il problema non è difendere i princìpi non negoziabili dell’essere moralisti ma è difendere i princìpi non negoziabili dello stato di diritto. E uno stato di diritto non prevede solo che un indagato debba essere considerato innocente fino a prova contraria. Prevede anche che non esista una verità che prescinde da quella processuale. E quando in un paese le armi del garantismo vengono usate per difendere le rendite di posizione – e non lo stato di diritto – significa che quel paese si è rassegnato a essere governato non solo dai campioni del populismo ma dai professionisti della barbarie.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.