A sinistra Mario Michele Giarrusso, a destra Luca Leoni Orsenigo in Aula nel 1993

Le contraddizioni dei giustizialisti, dalla forca alle manette

Redazione

Giarrusso come Leoni Orsenigo, che agitava il cappio in Aula nel 1993. Quando all'errore politico si accompagna anche il gesto miserevole

Il gesto di Mario Michele Giarrusso che, contestato per avere votato in Giunta contro il processo a Matteo Salvini ha mostrato il segno delle manette ai militanti del Pd, è diventato iconico perché rappresenta plasticamente le contraddizioni dei giustizialisti che si arrendono alla ragion di stato (o meglio di partito). Si è trattato di un atto miserevole, perché rivolto contro due persone anziane la cui colpevolezza è ancora tutta da dimostrare, per questo coerente con la logica forcaiola del giustizialismo. Con quell’esibizione il senatore probabilmente voleva scrollarsi di dosso l’imbarazzo per il voto che aveva appena espresso, ma così ha sommato a un errore politico un gesto maramaldesco.

 

 

Non è naturalmente la prima volta che nelle aule parlamentari o nelle adiacenze si assiste a esibizioni forcaiole: quella più nota fu quella di Luca Leoni Orsenigo, deputato della Lega Nord che, nel marzo del 1993, sventolò in aula a Montecitorio un cappio invocando la forca per i politici inquisiti nella vicenda Tangentopoli. Per la cronaca, quell’esibizione lugubre non gli portò fortuna: tre anni dopo uscì dalla Lega, per poi presentarsi nel 2002 come candidato a sindaco di Cantù per una “Unione autonomista del Nord”. Non fu eletto e si ritirò dall’attività politica.

 

Lo sfruttamento propagandistico della campagna contro la corruzione ha attraversato tutta la vicenda della Seconda Repubblica, ma aveva precedenti rilevanti nella prima, dalla campagna contro i “forchettoni” democristiani, ideata da Giancarlo Pajetta, alla evocazione della “questione morale” da parte di Enrico Berlinguer. Anche nel Parlamento del Regno d’Italia si erano verificate contese basate su gravissimi scandali: la più paradossale fu quella sulla Banca Romana, che permise a Francesco Crispi, che ne era corresponsabile, di costringere alle dimissioni Giovanni Giolitti, che non c’entrava niente.

  

  

Tornando al paragone tra il cappio di Leoni Orsenigo e le manette di Giarrusso, va detto che la esasperazione leghista di allora, oltre che sull’eccitazione sollecitata da Tangentopoli, si basava su una visione politico istituzionale, quella di Gianfranco Miglio, che condannava il consociativismo, non solo perché fonte di corruzione, ma perché imbrigliava il conflitto politico: “Soltanto gli spiriti deboli, scriveva, credono che la politica sia il luogo della collaborazione. La politica è il regno della sopraffazione. Ma la politica così concepita può stare in piedi solo se ha delle regole spietate di selezione interna: cioè se la competizione è effettivamente aperta e c'è un continuo ricambio. Laddove, invece, i sistemi degenerano e la politica si riduce a gestione del potere di posizione, allora la situazione diventa pericolosa perché provoca reazioni assai violente. Come il caso italiano insegna”. E’ una visione discutibile, ma con radici profonde. Quella della consociazione tra Lega e 5 Stelle, che Giarrusso difende insultando gli avversari, ha invece radici assai più fragili.