"Consilium in arena" di Giambattista Tiepolo

La trasformazione dello stato di diritto e il ruolo dei giudici secondo Grossi

Adriano Sofri

Un proposito antiautoritario che sembra il suo opposto

Ho ascoltato un dibattito su un libro di Paolo Grossi, storico del diritto e già presidente della Corte costituzionale, fino allo scorso anno. Il volume raccoglie e raccorda suoi scritti col titolo “L’invenzione del diritto” (Laterza, 2017). L’ho ascoltato a notte fonda, grazie alla solita ma pericolante Radio radicale, e ho misurato di nuovo l’ignoranza che mi impediva di afferrarne la sostanza, e in particolare l’amichevole dissenso fra Grossi e Guido Melis. Sembrava che il primo attribuisse ricerca e rinvenimento del diritto alle tensioni plurali della società e alle sue espressioni mediatrici, e il secondo piuttosto a una specie di autonomia e autosufficienza dello Stato.

 

Melis peraltro ha ricordato il suo grande maestro, Antonio Pigliaru (1922-1969), e il suo studio sulla “vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”: un caso esemplare di confronto fra la tenuta di un codice tradizionale e la legge dello Stato. (I romanzi francesi ci hanno reso familiare la ‘vindetta’ corsa, ma io ebbi una travolgente esperienza in Cecenia, dove si dice appunto ‘vendetta’, che rimandava alla Barbagia). Ambedue, Grossi e Melis, vedono una data discriminante nella Grande guerra. Per Grossi (cioè per quel che io ne ho capito) segna la fine dell’epoca “moderna” del diritto, inaugurata dalla Rivoluzione francese e dal proclama dell’uguaglianza formale, di tutti i cittadini di fronte alla legge, e l’inizio della ‘post-moderna’ (sic), in cui l’ordinamento costituzionale si propone di misurarsi non più con l’uomo e il cittadino astratto ma col “fatto”, con la “verità effettuale”, direbbe Machiavelli, della condizione reale in cui gli esseri umani vivono. Mi impressiona abbastanza, distante come sono da ambienti istituzionali così solenni – e piuttosto vicino al “fatto” – trovare in Grossi uno stile radicale come questo: “L’esempio più puntuale / dell’interessata astrattezza / è offerto da un principio di uguaglianza sbandierato senza risparmio in tutte le carte dei diritti: una conquista, senza dubbio, se vi si coglie la rottura con gli iniqui soffocamenti cetuali dell’antico regime, ma nulla più che una decorazione per il nullatenente che rimane tale e che, anzi, non avendo più vincoli di ceto a limitarlo nella sua libera azione, potrà essere bollato di pigrizia o di inettitudine per la sua permanente povertà”. Melis tiene a insistere sulla “rottura con gli iniqui soffocamenti di ceto”: i generali di Napoleone, dice, sarebbero stati tutt’al più gli stallieri dei nobili, senza la Rivoluzione francese.

 

Lo Stato sociale, dice Melis, ha nel primo Dopoguerra il suo annuncio ma deve aspettare il secondo per dispiegarsi. La coincidenza dei due studiosi sullo spartiacque del 1914-18, sia pure con sottolineature diverse – sempre più società e meno Stato, per Grossi – è quello che a un profano come me suona più ostica. C’è stata l’anticipazione della Costituzione di Weimar, c’è stata la Costituzione italiana e il suo articolo 3 sulla rimozione degli ostacoli e la valorizzazione dei corpi intermedi e così via, ma nel frattempo c’è stata la brutalizzazione della vita civile e la catastrofe della vita pubblica, e ha coperto la gran parte del secolo XX. Era una specie di purgatorio, sia pur così terribile da valere l’inferno per chi ci è passato, attraverso cui arrivare alla Costituzione dispiegata nella lettera – quanto alla sostanza sappiamo tutti di esserne lontani, e di rischiare anzi di allontanarcene? A questo punto c’è la famosa crisi della democrazia e della politica, per un verso. Per l’altro, una fiducia di Grossi – ma forse qui ho equivocato ancora più che per il resto – nella nuova mediazione assegnata ai giudici, tutti e non i soli costituzionali cui spetta ex officio, nei confronti della vitalità e pluralità sociale. I giudici, ordinari e civili (altra cosa per i penali, più rigorosamente vincolati alla legge), i più vicini al “fatto” e alla concretezza di persone e situazioni, investiti di un’applicazione della legge che diventa sempre più interpretazione: “All’interno del novero degli interpreti – fra i quali … non esito a dare un posto di rilievo allo stesso legislatore, accanto a scienziati notai e avvocati – un posto primario spetta oggi, senza alcun dubbio al giudice”. La conclusione, benché esplicitamente ispirata da un proposito antiautoritario, sembra avere qualcosa di paradossale. Ma l’ho detto all’inizio, probabilmente non ho capito niente. Era notte fonda.

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