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Le periferie del M5s

David Allegranti

Il lessico della negazione dei Cinque stelle, che dicono di avere “problemi di comunicazione”

Roma. C’è tutto un lessico, tutto un vocabolario della negazione che interviene quando le cose cominciano ad andare male nei partiti. La sinistra dice che bisogna “ripartire dalle periferie” e s’inventa pellegrinaggi in zone frequentate male o poco fino a ventiquattr’ore prima. Il centrodestra vuole ripartire dalle primarie (buona cosa, non scherziamo) e cerca faticosamente un regicidio impossibile culturalmente prima che politicamente. Poi c’è il M5s, in piena negazione, anzitutto di se stesso. Ora, in un partito ci sono principalmente due situazioni che si verificano quando le cose non funzionano più: si comincia a dire che “abbiamo comunicato male” e “dobbiamo ripartire dai territori”. Il M5s ha centrato l’obiettivo in un poche settimane. Così ha detto Francesco D’Uva, capogruppo alla Camera, dopo la cenciata d’Abruzzo: eh, è colpa della comunicazione. Così ha ripetuto martedì Stefano Buffagni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, un lombardo che in un’altra epoca avrebbe militato – con il savoir faire del galleggiatore – in Forza Italia o giù di lì. “Evidentemente sulla comunicazione noi non siamo bravi abbastanza, io sicuramente non lo sono, diciamo anche che ci massacrate tutti i giorni incredibilmente…”, ha detto Buffagni a Radio Capital, rivolgendosi ai conduttori. E’ insomma colpa della comunicazione, pure un po’ dei giornalista, ché altrimenti tutto andrebbe alla meraviglia: “Dobbiamo dare di nuovo un motivo alle persone per capire perché c’è differenza tra noi e la Lega o tra noi e gli altri. Spesso, probabilmente, essendo al governo insieme subiamo questo abbinamento e questo avvantaggia loro”.

 

Inevitabilmente, in questa negazione continua, i Cinque stelle vogliono “trovare la quadra” fra alleati riottosi (diceva il deputato Luca Carabetta qualche giorno fa in tv) e prendono tempo, rinviando ciò che si può rinviare, come la Tav, congelata dopo l’analisi costi benefici e una mozione parlamentare. Non prendere atto della realtà che s’affaccia e fa toc toc al portone milanese della Casaleggio Associati fa parte del meccanismo della negazione e persino della rimozione. Sicché, di negazione in negazione, pure nel M5s compare il desiderio di essere come tutti, un partito con le correnti, con un leader contestato – adesso ci manca solo che qualcuno lo definisca “una risorsa” ed è fatta – e con competitor che aspettano lungo il fiume. Il M5s ridiscute tutti i suoi tabù; non voleva fare alleanze con nessuno, è andato al governo e ha perso 7 punti nei sondaggi. E’ nato con il limite dei due mandati per i suoi eletti, adesso è pronto a gettarlo al macero. “Fare il consigliere comunale non si può pensare sia un privilegio, lo dico in generale, non solo per M5s. Oggi un nostro eletto in un comune è presidio di legalità e lotta contro i privilegi e contro la gestione disinvolta dei comuni”, ha detto Luigi Di Maio martedì presentando il piano di riorganizzazione del M5s. “Dobbiamo discutere nuove regole: ad esempio affinché il secondo mandato non valga come tale in modo che possano pensare di candidarsi al Parlamento e al consiglio regionale”.

 

Anche la parabola politica di Filippo Nogarin, se vogliamo, è in piccolo un capolavoro di negazione simile a quel che è accaduto a livello nazionale. Il sindaco di Livorno lascia la città per candidarsi alle prossime elezioni europee. Laddove si dimostra che una volta disattese le aspettative, non resta che la fuga. Anche dalla realtà. Nogarin ha scoperto quant’è difficile fare il sindaco, il mestiere più ingrato del mondo, perché si è pagati poco e le responsabilità sono molte. “Ho sulle spalle cinque inchieste penali e 50 civili. Alcune assurde, come una su un canto dell’upupa. Sono due le cose: o sono Al Capone, oppure c’è un accanimento nei miei confronti”, ha detto mesi fa annunciando la mancata ricandidatura. Dunque, berciare non basta. Non basta dichiararsi onesti, lanciare strali contro la casta, presentarsi come salvatori della patria, annunciando risultati facili da presentare a un’opinione pubblica quasi obbligata a provarle tutte (un florilegio di “andrà meglio la prossima volta”) ma impossibili da realizzare. La classe dirigente avrebbe bisogno di un bagno di realismo, onde evitare di consumare quella scarsa fiducia che c’è nei suoi confronti a ogni livello. Il nogarinismo, malattia infantile del populismo, ha avvantaggiato solo la Lega. Sicché, a un certo punto, non resta che ripartire dalle periferie. Non prima, beninteso, di aver migliorato la comunicazione.

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  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.