Matteo Salvini e Luigi Di Maio (Foto Imagoeconomica)

Perché Salvini non rompe con il M5s

Claudio Cerasa

I segnali dell’Abruzzo, il grillismo arrosticino, il ritorno del vecchio bipolarismo e una domanda: ma se il centrodestra è così forte, cosa aspetta Salvini a rompere con Di Maio? La storia fake della svolta alla Tsipras. Appunti sul partito della protesta

Ottimisti sì, ma cum juicio. Spiegare le trasformazioni dell’Italia di oggi attraverso i voti di una regione è un’operazione spericolata che rischia di essere scivolosa e poco veritiera. Ma se proviamo a inserire il risultato dell’Abruzzo, con il trionfo del centrodestra, all’interno di una fotografia più grande è possibile inquadrare meglio la traiettoria imboccata dal nostro paese all’indomani del 4 marzo. E se allarghiamo l’obiettivo della nostra fotocamera, accanto all’Abruzzo non possiamo non considerare quello che è successo in tutte le tornate elettorali successive alla formazione del governo. A ottobre alle elezioni provinciali di Trento e di Bolzano. A gennaio alle elezioni suppletive di Cagliari. A febbraio alle regionali in Abruzzo.

 

La storia finora è stata sempre la stessa: la Lega aumenta i suoi consensi, il centrodestra unito è vincente quasi dovunque (lo è stato lo scorso aprile anche in Friuli Venezia Giulia e in Molise), il M5s continua a perdere consensi (quasi venti punti in Abruzzo rispetto alle politiche, solo il 7 per cento di consensi conquistati alle elezioni di Trento, il collegio perso a Cagliari, 14 punti in meno in Molise un mese dopo le politiche), a livello locale il centrosinistra unito dimostra di essere vivo (in voti assoluti, rispetto al 2018, in Abruzzo il centrodestra ha guadagnato 20.780 voti, il centrosinistra 41.752, il M5s ne ha persi 176.841) e tranne il caso del Molise (con il M5s arrivato secondo) tutte le elezioni successive al 4 marzo hanno registrato il ritorno di un vecchio bipolarismo: non Lega contro Movimento 5 stelle ma centrodestra contro centrosinistra.

 

A voler essere ottimisti, dunque, si potrebbe dire che la buona notizia del weekend italiano è che in giro per l’Italia esistono segnali di resipiscenza mica male. Prima la mobilitazione di sabato scorso a Roma dei sindacati contro il governo, contro il reddito di cittadinanza, contro la manovra, contro i gemelli diversi del sovranismo nemici del lavoro. Poi, il giorno dopo, il flop del M5s in Abruzzo. In entrambi i casi, per chiunque sogni di liberarsi presto dal populismo è una notizia incoraggiante il fatto che alcuni grandi e piccoli elettori del M5s abbiano scelto di trasformare il grillismo in un arrosticino. E volendo, si potrebbe essere ottimisti anche rispetto al fatto che le elezioni abruzzesi dimostrano che non è sull’asse Lega-M5s che si sta ricostruendo il bipolarismo del futuro (la percentuale dei voti ottenuti dalla Lega e dal M5s alle regionali è leggermente più bassa rispetto a quella ottenuta il 4 marzo, 47,2 contro 53,6).

 

Ciò che però costringe ad aggiungere l’aggettivo “cauto” accanto al sostantivo “ottimismo” è legato ad alcuni problemi che non possono non essere considerati. Problema numero uno: è vero che in Abruzzo il Pd coalizzato è riuscito a raggiungere una percentuale da sogno rispetto al 4 marzo (30,6 contro 17,6) ma è anche vero che (a) la coalizione costruita attorno a Giovanni Legnini è un unicum difficilmente ripetibile a livello nazionale (quantomeno non ora, non oggi) e che (b) il centrosinistra non è stato in grado di fare quello che Salvini è riuscito invece a fare: portare dalla propria parte gli elettori delusi dal governo del cambiamento (l’Istituto Cattaneo ha segnalato che in Abruzzo una quota consistente degli elettori che l’anno scorso ha votato M5s domenica ha scelto centrodestra, confermando che i sovranismi sono due vasi comunicanti).

 

E qui arriviamo alla nostra conclusione provando ad affrontare un tema di respiro nazionale e che riguarda la traiettoria di Salvini. Il filotto di vittorie ottenuto dal centrodestra dal 4 marzo a oggi (Friuli Venezia Giulia, Molise, Trento, Bolzano, Abruzzo) sommato ai sondaggi da sballo della Lega sembra essere lì a suggerire al leader leghista una exit strategy immediata per porre fine all’agonia del governo del cambiamento: capitalizzare al più presto il consenso raccolto in questi mesi andando alle elezioni, magari direttamente il 26 maggio con le europee, per liberarsi dall’abbraccio sempre più mortale per l’economia italiana con il M5s. I teorici dell’inevitabile futura svolta salviniana, e dell’inevitabile trasformazione di Salvini nello Tsipras d’Italia, si aggrappano spesso a questo scenario, illudendosi che la grillizzazione della Lega sia in fondo solo un passaggio transitorio. Ma gli ultimi dieci mesi ci dicono qualcosa di diverso. Ci dicono che dal punto di vista elettorale a Salvini il gioco del doppio forno funziona. Ci dicono che per il Capitano i consensi raccolti vengono prima dei risultati dell’Italia. Ci dicono che quella che in molti considerano come condizione transitoria, la grillizzazione della Lega, in realtà è qualcosa di più strutturale. E il problema forse potremmo sintetizzarlo con una domanda: ma se Salvini vuole diventare il leader unico del partito della protesta, a livello nazionale potrà mai tornare con il centrodestra di Berlusconi? Per capire i prossimi mesi, più che pensare ai risultati dell’Abruzzo, forse conviene ripartire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.