Carlo Calenda ospite a "Otto e Mezzo" (foto LaPresse)

Lista e carrozzone

Umberto Minopoli

Il manifesto di Calenda va sottoscritto ma presenta un rischio: più Unione che Ulivo

Non si può che fare gli auguri a Carlo Calenda. E incrociare le dita. E, ovviamente, sottoscrivere il manifesto in 6 punti che di per sé è già un successo di adesioni. Detto questo, temo ostacoli e difetti che possono far naufragare l’iniziativa. O ridimensionarne, di molto, le ambizioni. Primo: tentare, a soli tre mesi dal voto, un’operazione della portata di una lista unica, in elezioni proporzionali e con preferenze, equivale allo sforzo di Tantalo. Temo che sia il Pd (dopo il congresso) che le forze minori organizzate possano, in base a un calcolo costo-benefici, non riuscire a sostenere i sacrifici e i rischi del tentativo. Che può alla fine rinculare in qualcosa di scontato, consueto e per niente innovativo: una lista del Pd aperta a indipendenti, una coalizione di simboli tipo Ulivo o coalizione del marzo 17 (centrosinistra senza Leu), un listone di personalità da eleggere, senza anima e specificità (da destra all’estrema sinistra) che si frantumerà il giorno successivo alle elezioni. In ogni caso, l’eventuale accordo elettorale rischia di essere diverso e distante dal manifesto di Calenda: meno caratterizzato e più ambiguo nelle motivazioni.

      

Il ritardo della proposta non è tecnico. E’ politico. Diciamolo con franchezza. L’iniziale proposta Calenda (che ovviamente non guardava solo alle europee), quella del fronte repubblicano contro i populismi, era una cosa ben diversa da quello che oggi si configura: una coalizione o una raccolta intorno al Pd. E, nei fatti, un centrosinistra solo irrobustito (speriamo) da personalità centriste (“progressiste” per distinguerle da centristi “centristi”). Che fungano, quasi, da “indipendenti di centrosinistra”. Io riterrei un errore, ad esempio, discutere dell’esclusione di Forza Italia (un limite) come sullo stesso piano dell’esclusione di Leu (un vantaggio). Naturalmente: se il listone di cui si parla fosse, veramente, chiuso al populismo di sinistra (Leu e altri) sarebbe, ovviamente, un sicuro riferimento elettorale per europeisti e liberaldemocratici di centrosinistra (come il sottoscritto). Ma non più di questo. Meglio di niente. Ma, ovviamente, siamo lontani dal disegno, che è oggi più attuale che mai, di una nuova formazione antipopulista, non di vecchio centrosinistra, che raccolga (in Italia) l’asse dell’opposizione europea al sovranismo e al populismo (sociale): liberali, popolari e socialisti.

  

Il problema è il Partito democratico

Il nodo è il Pd. Il congresso in ritardo del Pd ha complicato la situazione. Fino a distorcerla radicalmente. Il congresso del Pd è stato dominato da un’ipoteca involutiva, con due minacce evidenti: che esso segnasse una rivalsa e una liquidazione del riformismo del 2013/3017 e che esso fosse propedeutico a un ribaltamento politico del Pd e a un’alleanza con i 5 Stelle. Solo ultimamente, costretti dai fatti, Zingaretti e Martina hanno escluso questa ipotesi. Queste due minacce, esplicite nella candidatura di Zingaretti, sono state il centro per otto mesi del confronto congressuale nel Pd. E’ evidente ciò che questo ha comportato: la rimozione, per quasi 8 mesi, della discussione e della preparazione della scadenza elettorale europea in termini di aperture “oltre il Pd”; la impossibilità di immaginare una funzione propulsiva del Pd (persino in termini di efficace opposizione al governo gialloverde) stante l’ipoteca di un congresso che si presentava come autocritica per l’azione dei governi Pd, liquidazione del renzismo, cioè della piattaforma più modernizzatrice, innovativa e riformista da 25 anni e più di Pd, e come ipotesi di alleanza con il populismo di sinistra.

 

Ricordo che lo stesso Calenda ha considerato per mesi, giustamente, questa caratterizzazione del congresso Pd come il limite distruttivo di ogni possibilità di funzione propulsiva futura del Pd. Fino a paventarne l’inutilità e l’abbandono. Sacrosanto. Sono cambiate le condizioni? Il Pd è tornato indenne dalla minaccia di involuzione controriformista? Oggi Zingaretti, che si sente vincitore, è costretto a rimangiarsi la sua iniziale piattaforma politica: i 5 Stelle sono la minaccia. liente nel Pd ( specie con l’affermazione di Giachetti/Ascani). E, tuttavia, la minaccia di una restaurazione controriformista nel Pd (all’indomani del congresso) non e’ scomparsa. Solo sopita. Io dubito che le tentazioni vere di Zingaretti sono liquidate dalle affermazioni rassicuranti di oggi.

 

Dobbiamo considerare che l’assillo di trovare alleanze per un bipolarismo che comprenda il Pd ( ripristino della dialettica destra-sinistra attraverso l’incontro con i 5 Stelle che rompano con Salvini) è un’idea troppo facile da abbracciare per essere abbandonata per sempre. Oggi lo è, purtroppo, solo tatticamente. La minaccia probabile di una crisi di governo, ho l’impressione, rischia, persino, di tener in vita (nelle posizioni di un Pd zingarettiano dopo il congresso) questa illusione. Insomma il Pd resta concretamente abbarbicato a una prospettiva concreta di involuzione controriformistica.

 

Che funzione potrebbe avere, chiedo a Calenda, in una strategia (anche elettorale) che vada oltre il centrosinistra classico (con Leu o senza Leu) e segni una tappa verso un fronte repubblicano vero (con liberali, popolari e centristi)? Essere passati, come temo da certe affermazioni di Calenda, da una linea di auspicio di un chiarimento definitivo del Pd a dare per risolta l’ambiguità del Pd risultante da una segreteria di Zingaretti (magari con un patto di spartizione con il resto dei maggiorenti del Pd) è una grave illusione. Che può far naufragare i propositi generosi di Calenda. Capisco che non si può, dinanzi al voto tra tre mesi, fare gli schizzinosi. Serve l’intero, mi si dirà, poi si vedrà. Dubito, però, che un Pd post-congresso carico di restaurazione, di rinculo a sinistra e ambiguo sul populismo a cinque stelle, servirebbe alla causa.