Franco Bernabè (70 anni): banchiere, finanziere, manager, ex amministratore delegato di Telecom, ex vicepresidente di banca Rothschild (Foto Imagoeconomica)

Un elogio della nuova élite

Salvatore Merlo

“Hanno fatto errori? Sì. Sono stati irreversibili? No. La democrazia uscirà rafforzata da quanto accaduto”. Il cambiamento populista visto da Franco Bernabè. Chiacchierata

Roma. “Ha visto? Sfracelli non ne hanno fatti. Certo potevano evitarci lo spread, e il linguaggio incendiario che ha provocato costi inutili. Per carità, errori ne fanno. Altroché. Ma non di irreparabili. L’aspetto veramente negativo è il blocco delle opere pubbliche e degli investimenti”. E Franco Bernabè, a otto mesi di distanza, osservato all’opera il governo di Movimento cinque stelle e Lega, non ha cambiato idea rispetto a quanto già diceva su queste stesse colonne del Foglio a maggio del 2018, “il reddito di cittadinanza ha di aggressivo soltanto il nome”, ripete oggi. “Tra limiti, vincoli, procedure e ostacoli vari, rappresenta solo un miglioramento del reddito di inclusione che esisteva già. Quanto alla cosiddetta ‘quota cento’, è in realtà un aggiustamento della legge Fornero”. E insomma, sembra dire, c’è sempre una distanza più che avvertibile tra quello che dicono e quello che fanno. Si potrebbe allora sostenere che sono un po’ imbroglioni, questi del governo? Bernabè ride.

 

Banchiere, finanziere, manager, ex amministratore delegato di Telecom, ex vicepresidente di banca Rothschild, membro del Gruppo Bilderberg, consigliere d’amministrazione di una miriade di cose, a settant’anni lui è quanto di più lontano ci possa essere dal sovranismo della Lega e dalla retorica antifinanza del M5s. Così la sua benevolenza nei confronti del governo – “non benevolenza ma assenza di pregiudizi”, dice lui – è interessante in special modo. “La verità è che il cambio di regime che si è verificato in Italia è stato positivo”.

 

Intelligente, misurato, modico ma preciso nel parlare, Bernabè s’immerge “senza pregiudizi” nell’analisi di quanto accade in Italia e in Europa. “Se vi ricordate quello che diceva Pareto, solo dal confronto tra le élite si raggiunge una democrazia compiuta. Dove il sistema dell’élite è invece stabile, assestato, immutabile, la stagnazione porta a rivolgimenti di tipo violento e anche rivoluzionario. In Italia c’è stato un ricambio di élite. È questo è un bene. Come non fare un paragone con la Francia. Lì, dove l’élite coincide sempre e solo con l’Ena, con la grande scuola della burocrazia di stato, sono in atto rivolgimenti sociali che si manifestano con scontri di piazza. Mentre in Italia è stata data la possibilità a una élite emergente di provarsi sul campo. Hanno fatto errori? Sì li hanno fatti. Si è trattato di errori irreversibili? No. Credo proprio che la democrazia italiana esca rafforzata da quanto accaduto. E abbiamo anche capito che esiste nel nostro paese un sistema di check and balance, di pesi e contrappesi, che ha retto. Che regge. Ci sono degli incompetenti tra i ministri? Sì, ci sono. Ma c’erano anche prima. Anche con i governi passati. Alla fine di tutto questo processo la verità è che la nostra democrazia ne esce più forte. Ed è irradiata da una nuova élite che non so se durerà, ma sta certamente facendo esperienza”.

 

Molti dicono che stanno facendo esperienza sul corpo malato del paese. Che insomma l’apprendistato di Danilo Toninelli, Laura Castelli e Luigi Di Maio lo stiamo pagando tutti. “Ci costa molto. Va bene. Ma qual è l’alternativa? I costi di non aver considerato quello che succedeva, in Francia per esempio, quali saranno? E in Inghilterra? L’avere ignorato i grandi fenomeni che hanno riguardato il mondo negli ultimi dieci anni avrà un costo spaventoso dovunque. In Francia c’è una rivolta della classe media massacrata dalla globalizzazione. Tutto quello che accade, da Trump ai gilet gialli, è effetto della globalizzazione che ha massacrato milioni di persone in occidente e ha avvantaggiato l’Asia. Il problema europeo non è la moneta euro. Ma è la libertà totale di movimento delle merci e dei capitali, tutto un genere di filosofia che non ha considerato un aspetto fondamentale: non puoi far competere tra loro paesi che hanno livelli di protezione sociale differentissimi. Quando hai un sistema di protezione sociale come quello europeo, di tipo bismarckiano, e vai a competere col Vietnam, non funziona. È evidente. La rivolta di Trump è proprio questa. Assistiamo allo stesso fenomeno in tutto il mondo. L’Unione europea si è occupata soprattutto di fare contenti i consumatori: si è mossa con l’ossessione nei confronti dell’inflazione e con l’idea costante di dover ridurre i prezzi. Ma che te ne fai dei consumi, e dei prezzi bassi, se non hai il lavoro e non hai il salario? Quando avrai distrutto definitivamente il sistema distributivo perché Amazon ammazza i centri commerciali e i piccoli negozi, sarai più felice? Io non credo proprio. L’uomo non è soltanto un consumatore”.

 

Va bene, ma la libertà di spostare capitali, merci e persone ha garantito a lungo la pace in Europa. “Eh. Bisogna vedere. Abbiamo consentito alla Cina di crescere. E di diventare un antagonista degli Stati Uniti, con una forza ben diversa da quella che un tempo aveva l’Unione sovietica. Il rischio di un conflitto militare con la Cina è meno improbabile di quello che c’era con un tempo con l’Unione sovietica. La Cina mette in discussione la supremazia economica e tecnologica degli Stati Uniti d’America. Mina gli Usa alla base”.

 

E insomma, dice Bernabè, il M5s ha evitato la rivoluzione nel nostro paese. E incarna lo spirito del tempo. Però, messi alla prova del governo fanno anche tante stupidaggini. Forse troppe? “Guardi, dovremmo tenere conto di quell’aforisma di Deng Xiaoping che ha in qualche modo ispirato la filosofia alla base dello straordinario sviluppo economico della Cina. Diceva Deng Xiaoping: ‘Il fiume si attraversa tastando le pietre’. Ovvero: ‘Prova, fai esperienza, verifica, scopri le cose che funzionano e quelle che invece non funzionano’. Con questa idea, dopo Mao, la Cina ha fatto un balzo. E allora penso questo, penso che Luigi Di Maio, tastando le pietre, può imparare. Un ragazzo di trentadue anni che ha assunto quel ruolo qualche qualità deve averla. Se ce l’ha fatta, vuol dire che può imparare. Certo, tutto questo ha un costo forse elevato. Lei ha ragione. Ma è un costo sano. Se poi si arriva a un sistema più governabile, che coinvolge fasce più ampie della popolazione, meglio ancora”.

 

Si riferisce per caso alla democrazia diretta, alla fissazione di Casaleggio? Alessandro Di Battista, domenica, da Fabio Fazio, ha detto che un giorno guarderemo alla democrazia rappresentativa come qualcosa di obsoleto. “No. La democrazia diretta non mi piace. Penso esattamente il contrario, e cioè che un paese composta da tanti corpi intermedi sia un paese molto più dinamico, ricco e dove si fa molto meglio ogni cosa. In quel famoso libro di Edward Banfield sull’arretratezza del meridione era spiegato perfettamente quanto questa arretratezza fosse legata all’assenza di una società civile e organizzata. La verità è che più si va al nord, più c’è ricchezza, più ci sono corpi intermedi”.

 

E gli errori del governo finora quali sono stati? “Certamente nel non aver ascoltato la società, e le sue organizzazioni. Che invece vengono da tempo umiliate dal confronto con i governi. Poi mi sarei aspettato molto di più in favore dei piccoli imprenditori massacrati dalla burocrazia e dalle tasse. Pensavo che M5s e Lega affrontassero con maggiore attenzione il problema della perdita di produttività italiana, che non deriva affatto dalla moneta unica ma dalla burocrazia, dalle leggi strampalate, confuse, non chiare, sovrapposte, stratificate… Il sistema legislativo e burocratico italiano, dal punto di vista di chiunque voglia fare impresa, è un freno. L’Italia è composta da piccole realtà imprenditoriali che non hanno la forza di sostenere i costi che il districarsi da tutta questa selva di norme comporta. Vede, in Gran Bretagna i ‘brexiteers’ non sono dei pazzi, pensavano che liberandosi dai vincoli normativi europei si potessero avviare meccanismi di concorrenza con regole più semplici. Io credevo che anche Salvini e Di Maio, che avevano coltivato rapporti con Farage in Inghilterra, prendessero la medesima linea”.

 

Uscire dall’Unione europea? “No, certo che no. Mi riferisco però a un atteggiamento meno passivo nei confronti delle normative europee. Il nostro paese non cresce anche perché le normative europee hanno appesantito una burocrazia che già era affaticata, elefantiaca. E non bisogna dimenticare che qui da noi le regole europee sono state recepite in maniera ancora più pesante che altrove”. Può darsi, dottor Bernabè. Ma in realtà l’impressione è che le norme europee al contrario puntino alla liberalizzazione del mercato, come nel caso della famosa direttiva Bolkestein, e che invece il nostro governo abbia un atteggiamento protezionista.

 

Intanto gli effetti della manovra economica cominciano a vedersi. La Banca d’Italia prevede la recessione, il Fondo monetario internazionale ha dimezzato le stime di crescita previste dal governo. Anche la disoccupazione aumenta. Secondo l’Ocse siamo l’unico paese d’Europa in cui si perdono posti di lavoro. Di Maio invece parla di boom economico. Quando tutti invece dicono che il suo decreto, cosiddetto dignità, è causa dell’aumento della disoccupazione. “Il decreto dignità contiene un sacco di cose che non vanno bene”, dice Bernabè. “Molto spesso gli sbagli che fanno questi ragazzi sono dovuti all’inesperienza. Gli errori sono stati fatti anche perché il processo legislativo andrebbe intrapreso soltanto dopo aver consultato le parti interessate, come dicevo prima citando Banfield e l’importanza dei corpi intermedi. Non puoi fare delle leggi su princìpi astratti. Ci vogliono ampi processi di consultazione. Associazioni, sindacati, istituti con competenze tecniche. Ma attenzione: i processi di consultazione non sono i referendum. Prima di approvare una legge che ha ricadute sulla vita delle persone, bisogna capire cosa ne pensano le persone su cui quel provvedimento precipita. Bisogna ascoltare tutti gli organismi rappresentativi di interessi nella società, anche di interessi contrapposti. Ci vuole un meccanismo che ti renda capace di capire le conseguenze di quello che fai”. E invece? “E invece c’è una prevalenza dello slogan ideologico. Della comunicazione spiccia”.

 

Quindi torniamo all’apprendistato di una nuova élite. Un apprendistato costosissimo. “È la democrazia. Non possiamo farci niente. Più in fretta impareranno meglio sarà per tutti”. Anche sulle opere pubbliche, che vorrebbero bloccare, peccano soltanto di inesperienza? “E’ evidente. Nel caso della Tav Torino-Lione il Movimento cinque stelle ha un problema legato alle promesse elettorali. Per fortuna in questo frangente torna comodo il bilanciamento di governo con la Lega. I Cinque stelle possono imputare all’alleato delle scelte di cui in realtà sono convinti anche loro. C’è un gioco delle parti, in questo caso. Funzionale. Direi salvifico”.

 

Ma la Tav va fatta. O no? “Certo che va fatta. L’idea nasce perché il corridoio trans-europeo Bruxelles-Marsiglia-Genova-Milano avrebbe portato a un completo isolamento di Torino che in quegli anni, quando il progetto veniva pensato, era ancora il centro dell’industria italiana con la Fiat. Oggi che Torino è diventata una stazione marginale dell’alta velocità, di cui ha beneficiato soprattutto Milano, questa grande opera diventa ancora più importante. L’idea di restituire centralità a Torino in una logica di riequilibrio era un’idea sacrosanta, e lo è ancora di più oggi”.

 

Però c’è Toninelli di mezzo. “La storia dell’analisi costi-benefici è semplicemente ridicola. Se Cavour avesse fatto un’analisi costi-benefici mica la faceva l’Italia. Si tratta di avere visione. C’è una cosa che ho imparato in quarant’anni di lavoro: difficilmente una scelta strategica è sbagliata. Il successo sta per il 5 per cento nella decisione e per il 95 per cento nel sudore e nell’esecuzione di quella decisione. Il problema non è se fare la Tav o no. La questione è quale piano di sviluppo regionale è collegato alla Tav. Cosa significa collegarsi ancora di più alla Francia? Cosa significa ridare centralità a Torino, una città che ha grandissima qualità di persone per via dei centri di ricerca, dell’università, di una borghesia colta? A Torino c’è una capacità intellettuale straordinaria. E con opere pubbliche, e capacità di visione, è una città che può tornare a brillare”.

 

Toninelli, ma anche Di Battista, fa un’equazione: opere pubbliche uguale corruzione. E poi parlano sempre di lobby, poteri occulti, inafferrabili ed evanescenti. “Il mondo non è governato da un’oscura congrega di persone che stanno al club Bilderberg. Il mondo è molto più complesso. E di questo mondo adesso fa parte anche il Movimento cinque stelle, che si trova a governare un paese grande come l’Italia. Non ci sono manovratori occulti. Adesso ci sono loro. L’élite sono loro. Al governo ci sono loro. Quindi devono anche assumersi delle responsabilità”. C’è chi si preoccupa, proprio per questo. Toninelli sarebbe l’élite? “Mi riferisco alle persone… normali”.

 

Lei parla di inesperienza. Però c’è anche ideologia. Un pensiero. Una sottocultura, dietro. Ci sono molte assonanze con la sinistra, nelle cose che ripete Toninelli. “Sono cose orecchiate. E infatti è sorprendente la rapidità con la quale su certe questioni vengono cambiate le opinioni”. E questo non la spaventa? “Si potrebbe anche ritenerlo rassicurante”. Quindi, col tempo, e l’esperienza, secondo lei dovrebbero smetterla di sparare botti e petardi da mane a sera? “Il pericolo vero è l’indecisione. Guardi, decidere è difficile: comporta rischi e responsabilità. Quando decidi finisce sempre che scontenti qualcuno. Per questo dico che il pericolo maggiore è l’indecisione. La prova che il meccanismo di circolazione delle élite funziona sta nel fatto di prendersi delle responsabilità”. Responsabilità che evidentemente non vanno d’accordo con le corbellerie e le fantasie di complotto.

 

A proposito: non la preoccupa la natura proprietaria del Movimento 5 stelle? Non è un problema se Davide Casaleggio ha ereditato il Movimento cinque stelle dal suo papà? “Mah. E la natura poco democratica dei sindacati? E quella dei partiti, che si sono rifiutati di darsi delle regole democratiche stabilite per legge? La disciplina giuridica dei partiti fu lasciata in sospeso ai tempi in cui veniva approvata la Costituzione, si pensava di farlo dopo. Ma nessuno se n’è più occupato. Adesso mi pare tardi per intervenire. E’ difficilissimo. Chi lo fa? E’ evidentemente un problema democratico, che però non riguarda soltanto il Movimento cinque stelle. Ci sono anche altri partiti proprietari, partiti-azienda. E i capipartito, compilando le liste elettorali, si assicurano un potere esorbitante nei confronti del Parlamento”.

 

Le simpatie di Bernabè nei confronti del governo sono oggetto di malizie. Da tempo. C’è chi sostiene che abbia un interesse ad apparire quanto meno non ostile nei confronti dei Cinque stelle. “Non ho niente da chiedere al governo”, risponde lui. “Non ho ambizioni. Non voglio fare il ministro. Questo è puro gossip romano, abbastanza innocuo peraltro. Semplicemente ragiono con la mia testa. Se posso, senza pregiudizi”.

 

Ecco. A proposito: che ne pensa allora del provvedimento con il quale il ministro Alfonso Bonafede ha praticamente cancellato la prescrizione nei processi? La giustizia, con i suoi tempi biblici, viene considerata una delle tante cause dell’arretramento economico italiano. “Guardi, non sono d’accordo con l’atteggiamento giustizialista e forcaiolo che spesso mi sembra orientare l’azione del governo. Tuttavia, con la prescrizione rivista nei termini previsti dal provvedimento, i processi in realtà finiranno con il diventare più veloci”. Questa è nuova, dottore. Mai sentita. E perché? “Perché gli avvocati non cercheranno più di rimandare i processi all’infinito accampando scuse e pretesti. Non ci si difenderà più dal processo ma nel processo. Detto questo, però, sono contrario a un’idea vendicativa della pena. I toni e i modi forcaioli che si sono per esempio visti nei giorni in cui veniva riportato in Italia Cesare Battisti, mi hanno fatto orrore”.

 

Tangentopoli è stato l’inizio di tutto. Di un linguaggio, di una grammatica, una specie di piano inclinato. E la corruzione c’è ancora, mentre la grazia civile si è perduta. “Non sono d’accordo. Tangentopoli fu una catarsi. La verità è che il mondo è completamente cambiato. Oggi non ci sono più percorsi facili, non c’è più l’anonimato nella circolazione dei capitali. E’ cambiato tutto. E la corruzione, che prima era diffusa, è diminuita. Oggi non puoi più essere borderline, rubacchiare negli interstizi. O fai parte di una vasta organizzazione criminale oppure niente. E questo è il risultato della legislazione anticorruzione che viene dai tempi di Tangentopoli ed è anche effetto della legislazione antiterrorismo che si è diffusa dopo l’11 settembre. Il mondo della Prima Repubblica era violento, molto aggressivo. Oggi viviamo in una società meno ricca, ma molto più rispettosa delle regole del gioco. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta non era così. Quello di prima era un mondo dove c’erano mancanza di trasparenza e lotta violenta per il denaro e il potere. Le ricordo che si sparava per strada. Oggi ci lamentiamo degli haters del web, ma prima si girava con le spranghe e la pistola”. Ma era l’Italia del boom economico. “Ci vorrebbe una via intermedia tra l’eccesso di regole di oggi e il far west di ieri. La verità è che oggi uno come Enrico Mattei starebbe in galera”. Il ministro migliore del governo? “Questa è una domanda che non mi deve fare”. E il peggiore? Bernabè sorride. Forse sta pensando all’analisi costi-benefici.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.