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Dizionario delle idee confuse

Stefano Cingolani

Da austerità a tasse, passando per povertà. Le parole gettate all’aria dal nuovo regime in formazione

“I calli alle mani non bastano ancora a dimostrare che uno sia capace di reggere uno stato. Una rivoluzione politica si fa in 24 ore, ma in 24 ore non si rovescia l’economia di una nazione che è parte dell’economia mondiale” (Benito Mussolini, 10 ottobre 1919)


    

Parole, parole, parole, soltanto parole, parole tra noi. Mentre si prepara Sanremo, anch’essa già piena di parole prima che di canzoni, è quasi d’obbligo ricordare la Mina geniale che ha trasformato l’assenza in permanente presenza. Quante parole abbiamo sentito in questi mesi, per lo più pronunciate per fare rumore, parole in libertà incondizionata, un mondo di parole incantate. Vogliamo sfuggire almeno una volta alla propaganda? Mettiamole insieme, allora, in ordine alfabetico le parole gettate nell’aria dal nuovo regime in formazione.

Austerità

A dare una mano ai nazional-populisti ci si mette anche Jean-Claude Juncker con le sue autocritiche a babbo morto. Dov’è un leader che difenda le proprie idee e il proprio operato? Dove sono Kohl, Blair, la Thatcher, Craxi, sì, anche lui? L’austerità è stata un errore in sé e per sé o è stata applicata in dose eccessiva, nel momento e nel luogo sbagliato? Che la Grecia abbia truccato i conti pubblici è un fatto. Che la Spagna fosse soffocata da una bolla immobiliare insostenibile, non può essere messo in discussione. Che l’Italia abbia gonfiato il debito pubblico è un dato verificabile: Romano Prodi chiude il 2007 al 103 per cento del pil, Silvio Berlusconi si dimette nel 2011 con il 120 per cento. Poi arriva la recessione peggiore, quella di Monti che porta il debito al 130 per cento (il 2018 dovrebbe chiudere a 131 per cento). Dall’inizio della crisi ad oggi sono stati aggiunti oltre 700 miliardi di euro, ma il prodotto lordo italiano si è perfino ridotto. Il debito, dunque, non alimenta la crescita come sostengono gli ideologi gialloverdi. E tuttavia a Bruxelles non serviva solo il chirurgo, ma soprattutto un buon diagnostico che sapesse dosare le ricette a seconda del malato. E occorreva un intervento coordinato sulle banche, sul modello americano. Quanto alla Bce, ha sbagliato ad aumentare i tassi d’interesse nel 2011 pensando di calmare in questo modo la crisi dei debiti sovrani: c’è voluto Mario Draghi per far passare una inversione a u della politica monetaria. I sovranisti italiani se la prendono con la Germania la quale è l’unica a essere cresciuta davvero, consentendo all’Italia di esportare i suoi prodotti e alla Spagna di salvare le sue banche, infatti i sovranisti tedeschi se la prendono con l’Italia. “Il tango si balla in due” disse Christine Lagarde quando era ministro dell’Economia francese criticando la rigidità germanica. “Entrambi però debbono conoscere le regole e fare i passi giusti”, le risposero da Berlino e non se ne parlò più. Il dibattito è più che mai aperto, di errori son piene le cronache, quanto al senno di poi… fa testo il gran Manzoni.

  

Banche

Qui s’è consumata la crisi del renzismo e nei loro forzieri dissanguati dai crediti marci fermentano chissà quante altre crisi. Nemmeno una lira per le banche, giurava Di Maio. E Carige? Non abbiamo speso un soldo, insiste cocciuto. Davvero la nazionalizzazione (per quanto “precauzionale”) si fa gratis? Prendiamo il Monte dei Paschi. Il Tesoro è azionista, ha impegnato 5,4 miliardi e ha perso in borsa il 35 per cento. L’Istat ha calcolato che lo scorso anno Mps ha pesato per 1,6 miliardi sul debito pubblico e le banche venete per salvare le quali si è battuta la Lega sono costate 4,756 miliardi. Adesso la Lega per bocca di Giancarlo Giorgetti vuole che Pantalone paghi ancora. Ammettiamo che anche altre banche alla ricerca di capitali (e l’elenco s’allunga ogni giorno come il catalogo di Leporello) chiedano le stesse garanzie, che si fa? Le idee sono confuse, per chiarirsele Bibì e Bibò vanno a Strasburgo, mentre capitan Cocoricò fa collezione di divise. Di Maio e Di Battista hanno un’idea popolare per la campagna elettorale: chiudere la sede del Parlamento europeo. Tanto, per gli italiani che ci lavorano e perdono il posto, c’è il reddito di cittadinanza.

  

Brexit

Parole e cose si sono inseguite a lungo al di qua e al di là della Manica. Si è passati da “avete visto si può fare” all’imbarazzante “il popolo vuole uscire dalla Ue e il popolo ha sempre ragione”. Anche quando si fa male da solo. Se la realtà porta in senso opposto, tanto peggio per la realtà. Se ne sentono di tutti i colori pur di coprire lo smacco di chi ha cavalcato l’Italexit guardando all’Inghilterra. La Brexit ancora non c’è e già sta provocando la più grave crisi istituzionale nella storia britannica, con il rischio che lo stesso Regno Unito vada in frantumi. Il popolo non lo aveva calcolato, ancor meno l’élite che ha cavalcato la tigre e non capisce come scendere.

    

Cittadinanza

Ecco dove il mondo delle parole incantate dà il meglio di sé. Si chiama reddito di cittadinanza, ma non lo è: non è un provvedimento universale che viene erogato solo perché si è cittadini italiani, bisogna cercare un lavoro e bisogna anche non rifiutarlo, almeno non oltre un certo limite. Non si deve possedere una casa, il reddito non può superare la soglia della povertà, non dà a tutti 756 euro al mese, ma varia fino a un minimo di 351; secondo una prima stima il beneficio medio ammonterà a 391 euro. Si riceve una sorta di “tessera del pane” che va svuotata ogni mese. I centri dell’impiego non ci sono o sono in uno stato “devastante” ammettono i Cinque stelle. Eppure ha fatto presa su milioni di elettori, soprattutto al sud: nessuno ne conosce ancora la vera portata, eppure nessuno ha resisto al canto delle sirene (vedi alla voce povertà).

   

Crescita

Ma anche recessione o stagnazione, il dizionario ci perdoni questo salto alfabetico. Il ministro Di Maio annuncia un nuovo boom come negli anni 60, grazie alle autostrade del web al posto delle autostrade rotabili. Ma dove sono, chi le paga, con quali soldi? Giovanni Tria, titolare dell’economia, ammette: “Credo che ora siamo in stagnazione”. Le cifre dell’Istat dicono che il prodotto lordo ha un segno negativo da tre trimestri consecutivi, quindi tecnicamente si può parlare di recessione. Naturalmente quest’anno può andare meglio (l’Italia in tal caso sarebbe in controtendenza). Però il governo che voleva una crescita dell’1,5 per cento accetta adesso l’un per cento percentuale ottimista, secondo molte previsioni. Se le cose non cambiano torneremo a zero virgola e ciò costringerà a rivedere le coordinate chiave della legge di bilancio a cominciare dal disavanzo pubblico che potrebbe superare il 2 per cento previsto. Ormai è una corsa contro il tempo: che occorra una manovra aggiuntiva lo pensano tutti, il problema è se farla prima o dopo le elezioni europee. Intanto, invece del ritorno alla crescita strombazzato dai gialloverdi abbiamo il ritorno alla crisi.

    

Debito

Continua a gonfiarsi: a novembre ha compiuto un nuovo balzo di 10,2 miliardi rispetto al mese precedente, arrivando a 2 mila 345 miliardi di euro, a marzo era di 2.302 miliardi, a giugno 2.323 miliardi. A febbraio si era fermato a 2.286 miliardi. Lega e M5S avevano fatto campagna elettorale dicendo che era colpa di Renzi e Gentiloni. Le elezioni sono costate almeno 16 miliardi di debito, il “governo del cambiamento” ne ha aggiunti altri 22; bene che vada, insomma, non ha cambiato nulla. Un’altra bufala propagandistica? Rocco Casalino ha perso il controllo, le sue veline durano ormai lo spazio di un mattino e vengono smentite persino dalla stampa amica.

      

Inflazione

I prezzi tornano a salire. Magari, vien da dire. Invece si levano alti lai. Gas, elettricità, gasolio, benzina, alimentari, tutto quello che tocca le famiglie e pesa di più su chi ha meno, come ha spiegato l’Istat: il paniere della spesa è cresciuto dell’1,5 per cento per chi ha redditi inferiori e dell’1,1 per cento per gli altri. Un pessimo segnale non solo per la distribuzione del reddito, ma per i consumi, perché è probabile che abbia un effetto restrittivo. Tutto vero, ma stiamo parlando dell’un per cento e poco più. L’obiettivo della Banca centrale europea è il due per cento l’anno, e ancora non ci siamo, ciò significa che la domanda interna in Italia (come nella maggior parte dei paesi europei) resta debole. Solo un’ascesa, moderata e progressiva, dei prezzi consente di dire che l’economia si muove nel senso giusto. La paura dell’inflazione è un’arma da maneggiare con cura.

    

Infrastrutture

E’ entrata in campo anche Milena Gabanelli per cercare di riportare alla ragione i toninelli che pendono dalle sue labbra. Ventisette grandi progetti bloccati per 24 miliardi di euro su un totale di opere ferme per 86 miliardi che possono creare 380 mila posti di lavoro. Sulla Tav anche il Corriere della Sera, il quotidiano sdoganatore, pubblica un articolo che fa chiarezza: non costa 20 miliardi, ma 4 in gran parte già finanziati dalla Ue, che non possono essere dirottati verso altro, non verso i treni pendolari o i bonus per l’infanzia, come proclamano ogni giorno i pentastellati a microfoni aperti e compiacenti. I grillini insistono: no alle grandi opere, sì alle piccole. Davvero? Il fatto è che gli investimenti pubblici rappresentano una cifra irrisoria nella legge di bilancio. Chi le finanzia le opere, piccole o grandi che siano?

      

Occupazione

A novembre 2018 il tasso di disoccupazione è sceso dello 0,1 per cento rispetto a ottobre, attestandosi al 10,5 per cento. Di Maio e i suoi hanno esultato. “Avete visto, il decreto dignità fa bene”, smentendo così gli uccelli di malaugurio. In realtà il tasso di disoccupazione era al 10,5 già a maggio, è arrivato a 10,1 ad agosto poi è peggiorato di nuovo. Per quel che riguarda gli occupati, ecco cosa scrive l’Istat: “La stima risulta sostanzialmente stabile rispetto a ottobre; anche il tasso di occupazione rimane invariato al 58,6 per cento. Come già accaduto in ottobre, l’andamento degli occupati è sintesi di un lieve aumento dei dipendenti permanenti (+15 mila) e una diminuzione di quelli a termine (-22 mila). Cresce l’occupazione maschile, mentre cala quella femminile. Torna a calare, dopo due mesi di crescita, la stima delle persone in cerca di occupazione (-0,9 per cento, pari a -25 mila unità). Il calo si concentra prevalentemente tra le donne e le persone da 15 a 34 anni”. Insomma, più stabili, meno precari e nell’insieme meno occupati. Finora è così.

     

Pensioni

Le parole e le cose. Ha ragione o no Elsa Fornero? Quota 100 non cambia la sostanza della sua riforma, tanto meno la seppellisce come aveva giurato Salvini, ma aumenta solo le possibilità di uscita anticipata. Non sappiamo ancora quanti usciranno da questa nuova finestra, si parla di 320 mila o di 350 mila, la maggior parte dipendenti pubblici. E quanti verranno rimpiazzati? “E’ automatico, uno a uno”, insistono i leghisti duri e puri, mentre le aziende dicono uno ogni tre se le cose vanno bene. E se vanno male? A quel punto è probabile che i lavoratori scelgano di tenersi il posto e di non perdere una quota di reddito per il resto della propria vita. Quanto allo stato, non può gonfiare il debito oltre un certo limite. Vedremo cosa accadrà nel pubblico impiego. Chi pagherà per loro (dalla liquidazione alla quiescenza anticipata)? Ma è semplice: tutti gli operai e impiegati che restano al lavoro.

   

Povertà

“Abbiamo sconfitto la povertà”, tambureggia Di Maio. “Il reddito di cittadinanza rischia di diventare una trappola della povertà”, teme Stefano Feltri vicedirettore del Fatto, il giornale fiancheggiatore. Chi ha ragione? Il prodotto lordo italiano aumenta e viene redistribuito in modo più equo, secondo i principi base dell’arte di governo? Il reddito pro capite cresce e viene spalmato non solo sulle élite, ma su tutto il popolo? Magari, ma sembra proprio che ciò non accada. Il reddito di cittadinanza è più generoso del reddito di inclusione varato dai governi di centrosinistra, è rivolto ai disoccupati invece che a chi lavora, come gli 80 euro di Matteo Renzi che pure sono costati la stessa cifra, circa dieci miliardi di euro. Ci sono enormi problemi per applicare il provvedimento, ma aspettiamo di vedere i suoi effetti. Una cosa si può già dire: una politica distributiva più generosa funziona se l’economia tira. A quel punto i redditi aggiuntivi vengono davvero spesi in consumi, senza bisogno di imposizioni dall’alto. In momenti di incertezza o se la produzione scende, la reazione più razionale è mettere fieno in cascina, anche il poco che si ha per fronteggiare gli anni di vacche magre. Inoltre, con un pil che non cresce scarseggiano anche i posti di lavoro, quindi diventa inevitabile la tendenza a trasformare qualsiasi sussidio in assistenza permanente a chi resta tagliato fuori. Insomma, il timore Stefano Feltri è più che fondato. La demagogia, nutrendosi di bugie, ha le gambe corte.

Tasse

Gambe cortissime, quasi invisibili, per la riduzione delle imposte. Doveva essere l’alfa e l’omega del leghismo al potere. Ricordate la flat tax? E’ bella che dimenticata. Certo, c’è il regime forfettario (definizione meno glamour, ma più adeguata) al 15 per cento per le piccole partite Iva fino a 65 mila euro annui che sale al 20 per cento fino a 100 mila nel 2020, anno in cui non ci sarà una ma due tasse piatte, il che è un evidente nonsenso. Non flat tax, ma dual tax. Sarà comunque un beneficio per alcune categorie, pagato però da tutte le altre perché anche questo provvedimento è finanziato con debito pubblico. Più in generale, la pressione fiscale è destinata ad aumentare dal 42 al 42,4 per cento del prodotto lordo. “E’ un effetto temporaneo, l’anno prossimo le cose miglioreranno”, spera Tria. Intanto, proprio dal 2020 il ministro dovrà trovare 23 miliardi di euro per non incappare nelle clausole di salvaguardia che prevedono un aumento dell’Iva e delle imposte indirette. Tra tutte le promesse, la riduzione delle tasse è la peggiore, la più illusoria, la più falsa. Abbassare le imposte è necessario, ma difficile, perché bisognerebbe tagliare le spese fino a ridurre, come si suol dire, il perimetro dello stato. Al contrario, i gialloverdi sono statalisti, chi per convinzione chi per concessione. E meno tasse con più stato non funziona, è una contraddizione in termini. Gli elettori ci hanno creduto? E’ stata la madre di tutte le illusioni, sarà la levatrice di tutte le delusioni.

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