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L'isteria no-global che l'Italia non si può permettere

Costantino della Gherardesca

Il sovranismo non ha senso se non si confronta con il resto del mondo. L’esempio di Hassan Fathy

L’Italia è un paese che ama i passi indietro. Se negli anni Novanta abbiamo coltivato un sogno europeista (con tanto di slanci internazionalisti, pur mantenendoci in azzardato equilibrio su posizioni no-global delle quali non smetterò mai di pentirmi), oggi ci ritroviamo in una realtà che – a stragrande maggioranza – ha abbracciato istanze localiste e che guarda al resto del mondo (ricco o povero che sia) con estremo sospetto, se non con aperta ostilità.

 

Negli ultimi anni, gli editorialisti dei più blasonati quotidiani italiani si sono dati un gran daffare nello spianare la strada a questa deriva nazionalista. C’è chi l’ha fatto alimentando nell’immaginario generale scenari di drastico impoverimento, aprendo così le porte a una paranoia pauperista che non porta da nessuna parte; e chi, invece, ha preferito giustificare la paura della “gente comune” (concetto che ormai ha soppiantato quello di “società civile”) di fronte a cambiamenti di paradigma tanto necessari quanto inevitabili: dall’informatizzazione all’automazione, dai flussi migratori alla gentrificazione (fenomeni che, val la pena ricordarlo, esistono da sempre, visto che le nazioni, le culture, i sistemi produttivi e gli insediamenti urbani non sono monoliti, ma organismi viventi in continua mutazione).

 

Oggi decantare il proprio orticello e far gli elogi delle muraglie è una prassi consolidata, ma possiamo davvero permetterci questa svolta sovranista? Se è comprensibile che delle élite si impegnino con tutte le loro forze a proteggere le proprie ricchezze, ha molto meno senso che la tanto decantata “povera gente italiana” difenda con le unghie e con in denti i propri quattro stracci. In poche parole, il sovranismo è davvero una moda alla portata di tutti? A mio parere no.

 

L’istinto di preservare tradizioni e retaggi del passato è una pulsione che non può presentarsi nuda e cruda, sotto forma di becera ondata d’indignazione. Per essere condivisibile, se non addirittura auspicabile, la salvaguardia di una specifica identità culturale deve prima confrontarsi con il resto del mondo: solo così potrà sancire la propria obiettiva utilità. Una tradizione inutile o addirittura dannosa e retriva, per quanto folkloristica e simpaticamente pittoresca, resta una cosa da poveracci se non dimostra in qualche modo una sua seppur marginale utilità per la gente che vuol tenerla in vita.

 

Se da una parte trovo ridicolo il culto del chilometro zero (a che serve coltivare una bietola in balcone, se vivi in una città inquinatissima?), dall’altra considero interessante l’operato di un architetto britannico come Laurie Baker che, trasferitosi a ventotto anni in India, ha trascorso la sua vita nel Kerala, dedicandosi all’edilizia popolare e contribuendo allo sviluppo di quella che oggi è definita architettura sostenibile. E anche se sogno di vivere in un albergo ipertecnologico a Singapore, il mio cuoricino tardocapitalista si scioglie di fronte alle idee di un altro architetto di stampo utopista, l’egiziano Hassan Fathy, la cui opera-testamento è il villaggio popolare di New Gourna, nei pressi di Luxor, un insediamento progettato e realizzato a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta per accogliere gli abitanti della vecchia Gourna, un borgo fatiscente la cui economia gravitava attorno all’attività dei tombaroli che depredavano i siti archeologici circostanti.

 

Al fine di proteggere l’inestimabile patrimonio artistico egiziano e – al contempo – garantire a questa gente un’aspettativa di vita migliore, Fathy progettò New Gourna, un villaggio in cui ogni aspetto (dall’estetica alle tecniche edili) traeva ispirazione dalla tradizione locale, al punto da confondersi con le vicine strutture millenarie della storia egizia. Naturalmente Fathy, cosmopolita e poliglotta, scrittore e uomo di cultura a tutto tondo (il suo Architecture for the poor è ancora oggi un testo di riferimento), non avrebbe mai potuto realizzare un’opera simile senza aver viaggiato, studiato e amato il resto del mondo. Nel creare New Gourna, Fathy non ha pedissequamente imitato l’antico Egitto, ma ha privilegiato le intuizioni della tradizione architettonica araba che ancor oggi potevano rivelarsi funzionali: il passato non si copia, ma si studia e reinterpreta, perché la filologia deve sempre cedere il passo alla funzionalità.

 

Inseguendo il suo sogno di un’architettura per i poveri, quel modernismo vernacolare di cui è tra i capostipiti, Fathy ha fatto il giro ed è (forse inconsapevolmente) diventato un pioniere dell’eleganza progressista. Perché è meglio reinventare le tradizioni, piuttosto che copiare il passato senza pensare al futuro. A meno che al fascino intramontabile di New Gourna si preferisca la replica del Canal Grande a Las Vegas.

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