Il governo fantasma

Salvatore Merlo

L’accordo non c’è. Di Maio e Salvini prendono tempo e ora giocano con i gazebo. Quella trappola possibile

Roma. Le intendenze in una stanza a discutere del programma di governo, loro due, i capi, invece nell’altra, ancora, a misurarsi con lo sguardo, con una consapevolezza crescente sotto le occhiaie gonfie di stanchezza. “L’è minga facile”, sintetizza Roberto Calderoli, mentre Matteo Salvini e Luigi Di Maio vanno sporcando la loro giornata di sguardi fiacchi, passi gravi, pensieri stanchi. Si incontrano a Montecitorio, e quando Di Maio insiste su se stesso, “il premier lo faccio io”, come sta ormai ripetendo da un paio di giorni anche nelle telefonate con Giorgia Meloni, ecco che Salvini per la prima volta tentenna: i sensi molli e ottusi come stucco. Così al piano terra della Camera, affacciandosi sull’ascensore, il segretario della Lega esala poche parole: “Di Maio premier? Mah. La Lega è responsabile”. E la sensazione di essere ormai andati troppo avanti per potere tornare indietro avvolge Salvini e i suoi uomini, costretti però a brontolare la verità, come i camerieri in cucina: “Abbiamo a che fare con dei bambini. I cinque stelle hanno una tale voglia di governare che sono disposti a fare pasticci. Noi invece non possiamo permettercelo”. Un’impressione che diventa terribilmente concreta quando Di Maio, nel pomeriggio, parla alle telecamere dopo aver incontrato il presidente della Repubblica, con l’aria di chi sta pronunciando un discorso motivazionale: “Se parte questo governo del cambiamento, parte la Terza Repubblica”. Dirà invece Salvini, dallo stesso microfono del Quirinale: “Gli accordi un tanto al chilo non fanno per me. Ci rivedremo presto, o perché si parte o perché ci si dice addio”. 

 

L’Italia politica sembra girare su e giù, vorticosamente, come in un farsesco ottovolante. Intorno alle 13, in un angolo del Senato, Giulio Tremonti risponde al telefonino. E’ un suo noto collega, che gli dice, all’incirca: “Senti Giulio, se tu vai a fare il presidente del Consiglio, io vado all’Aspen al posto tuo”. Contemporaneamente però anche il professor Giulio Sapelli dichiara alle agenzie: “E’ vero sono stato contattato per fare il presidente del Consiglio. Ho visto il Movimento cinque stelle e la Lega ieri sera. Adesso sto aspettando che qualcuno mi chiami per andare al Quirinale”. Ma la cosa si fa davvero surreale quando, subito dopo aver negato che Sapelli possa fare il premier, i Cinque stelle cominciano a dire che “il candidato è Luca Zaia della Lega”, mentre i leghisti fanno il nome di Riccardo Fraccaro dei Cinque stelle, e Renato Brunetta invece fende il Transatlantico con l’aria di saperla lunga: “Il nome è Emma Bonino!”. Ma Stefano Buffagni, diventato l’ombra di Di Maio: “Il nome è Luigi”. E insomma la politica sembra diventata la Domenica Sportiva, o il Processo di Biscardi. Così il vecchio Fabrizio Cicchitto, che osserva e si diverte, sentenzia: “Questo è il governo del cambiamento, nel senso che cambia tutto continuamente”.

 

Ed ecco allora che sempre più la sicurezza di Salvini e Di Maio – soprattutto del secondo – si fa una recita improbabile, inverosimile, una pietosa membrana che non può occultare il senso di preoccupazione che monta. I due capi coltivano la loro intesa probabilmente da prima delle elezioni. Ma tutto si è complicato. “Qui uno dei due rischia di lasciarci le penne”, dicono nella Lega. E infatti quando Di Maio ha riproposto se stesso come presidente del Consiglio, Salvini gli ha contrapposto Giancarlo Giorgetti perché “con Di Maio a capo del governo Salvini finirebbe a fare il partner di minoranza”, diceva anche Silvio Berlusconi, che osserva interessato. “Dobbiamo provare ad allargare la maggioranza”, ha detto allora Salvini a Di Maio, sapendo che con Di Maio premier Giorgia Meloni, che intanto ha riunito il suo gruppo dirigente all’hotel Universo di via Principe Amedeo, non è intenzionata a essere della partita. “Ci sono tanti dubbi, tanti problemi”, diceva qualche giorno fa Ignazio La Russa, circondato da altri deputati di Fratelli d’Italia. “E poi… e poi… e poi diciamo la verità”, aggiungeva il vecchio La Russa: “A me questi Cinque stelle fanno anche un po’ schifo”. E allora Fabio Rampelli, il capogruppo, afferra il nocciolo della questione: “Quando Salvini smetterà di giocare con quei cazzari ci può chiamare”. E Riccardo Zucconi, deputato toscano in ascesa nel partito: “L’eventuale maggioranza di Lega e Cinque stelle, al Senato, non è tanto solida”. Appena sei voti di scarto. Trenta alla Camera. “Se vogliono discutere ci devono dire chi è il presidente del Consiglio, e poi dobbiamo firmare anche noi il programma. Il nome del capo del governo non è mica un fatto neutro”. D’altra parte il contratto di governo alla tedesca, cui si ispira Di Maio, è stato siglato soltanto dopo la conferma di Angela Merkel nel ruolo di Cancelliera e soltanto quando l’altra casella chiave, l’economia, era andata all’Spd.

 

Col tono dolce di chi scaccia le paure e concilia i tormenti, il presidente Mattarella aggrava più che mai le paure e i tormenti: ha concesso ancora tempo. La Lega sottoporrà il contratto di governo a una consultazione “tra la cittadinanza”, sabato 19 e domenica 20 maggio. I tempi si allungano ancora, ma non ci sono smorfie che bastino a esprimere i dubbi dei leghisti sulla vitalità del loro rapporto con i Cinque stelle. “Salvini potrebbe anche approfittare della candidabilità di Berlusconi per tornare alle elezioni”, dice un vecchio leghista di grande esperienza.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.