Stefano Buffagni e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Buffagni, Castelli & Co. L'idillio mancato tra i fedelissimi di Di Maio

Valerio Valentini

Lo scontro ai vertici del M5s. Equilibri pericolosi. Lannutti attacca il sottosegretario, addossandogli colpe su Lanzalone. “Lui è solo la testa d’ariete”. La guerra per le nomine in Cdp

Roma. Una, di battaglia, è fin troppo evidente: e vede, comme il faut, la minoranza interna del M5s, l’ala di sinistra che si riconosce nella balbettante dissidenza di Roberto Fico, utilizzare le sventure di Luca Lanzalone per addossare la responsabilità della sua sconveniente apoteosi a chi per primo – leggasi: Alfonso Bonafede – ha arruolato e promosso l’avvocato genovese come salvifico consulente per sindaci grillini in affanno. E infatti l’improvviso recupero di memoria di Filippo Nogarin – “Lanzalone l’ho scoperto io” – in tanti lo hanno preso per quel che era, e cioè – dice un senatore M5s – “un tentativo dei vertici per togliere pressione” dal ministro della Giustizia. E però, a ben vedere, questa non è che la meno importante, e a suo modo secondaria, delle battaglie intestine che si consumano dentro il polverone di delazioni e di accuse incrociate che la caduta di Lanzalone ha alzato. L’altra, la principale, sta infatti lacerando proprio la cerchia ristretta dei fedelissimi di Luigi Di Maio. E soprattutto due: Laura Castelli e Stefano Buffagni, impegnati entrambi nella difficile partita per la nomina dei vertici di Cdp.

 

E c’è chi la giudica, con inquietudine, “un regolamento di conti per difendere o conquistare posizioni”, e chi, più cauto, la svilisce a “semplice scazzo”. Ma insomma lo scontro c’è, e utilizza proprio la carcassa politica dell’avvocato genovese come oggetto contundente. Ad aprire il fuoco, col garbo che gli è proprio, è stato Elio Lannutti, confermato nell’entusiasmo che sembrava avere perso per il governo tra Lega e M5s. Un mese fa lo liquidava come una cricca di “cariatidi, lestofanti del potere marcio e corrotto”; poi deve essersi ricreduto, se è vero che a tempo debito si unì ai cori di insulti contro Sergio Mattarella, reo di aver bloccato “il cambiamento”, e attribuendo al capo dello stato la “responsabilità esclusiva” dell’aumento dello spread, manovrato “dai brigatisti della finanza criminale”.

 

E insomma, forse temendo una crisi di anonimato, il presidente dell’Adusbef promosso per meriti sul campo a senatore pentastellato giovedì sera, all’indomani dello squadernamento dell’inchiesta sullo stadio di Tor di Valle, ha pensato bene di pubblicare un post che ha lasciato sbigottiti molti dei suoi colleghi. Recitava così: “Lanzalone si è fermato un’ora a parlare su un divanetto del Transatlantico con Stefano Buffagni. Lo ripeto ancora una volta: non tirate in ballo Beppe Grillo, che non c’entra nulla”. Difendere il comico garante? Macché. “Figurarsi se Beppe ha bisogno di uno come Lannutti”, scuote la testa un deputato tra i più navigati. Piuttosto, evidentemente, si trattava di un attacco al novello sottosegretario di stato con delega agli Affari regionali. Buffagni, peraltro, di Lanzalone non è certo stato uno dei principali estimatori. E anzi, a giudicare dai resoconti che ai piani alti del M5s si fanno delle convulse giornate che portarono alla formazione dell’esecutivo pentaleghista, era tra quelli che con maggior foga mettevano in guardia il capo politico dall’arrivismo dell’ex presidente di Acea. E allora come si spiega l’attacco di Lannutti? “Si spiega – si ripetono tra loro, un po’ basiti, alcuni parlamentari grillini – guardando gli incontri che Lannutti ha avuto appena prima di scrivere il suo post, giovedì scorso”.

 

E’ andato al ministero dell’Economia, Lannutti, quel pomeriggio: e ha incontrato i due sottosegrtari grillini freschi di nomina: la piemontese Laura Castelli e il siciliano Alessio Villarosa. La prima, stimatissima da Di Maio e unica responsabile economica del M5s al tavolo del contratto con la Lega, era quasi certa di un ruolo da ministro, prima che il riemergere di suoi antichi screzi – messaggi privati scambiati con Nicola Biondo, finiti poi su Repubblica – con Di Maio e il suo entourage ne ridimensionasse le ambizioni. L’altro, impegnatissimo nella commissione d’inchiesta sulle Banche, nei progetti iniziali del M5s sarebbe dovuto andare a presiedere la commissione Bilancio, ed è invece poi stato promosso a Via XX Settembre. Entrambi, è cosa nota, non hanno grande simpatia per Buffagni: e pare sia stato anche per questo che alla fine le porte del Mef non si sono aperte. “Luigi ha voluto evitare tensioni”, dice un deputato grillino.

 

Sta di fatto, comunque, che per molti Lannutti proprio questo è stato: la “testa d’ariete” con cui si è cercato di dare una botta alle mire di Buffagni, tutto preso nelle nomine, prima fra tutte la presidenza della Cassa depositi e prestiti. La stessa, guarda caso, su cui aveva posato gli occhi Lanzalone, ma vabbè. Il punto vero, dicono nel M5s sotto garanzia di anonimato, è che proprio Buffagni si sta occupando, e da tempo, del dossier per la successione di Claudio Costamagna. Ma di Cdp – di come riformarla, di come potenziarla – Castelli si è sempre occupata, e nei giorni scorsi è sembrata volere rivendicare il suo spazio, nella scelta del nome. La madre di tutte le battaglie, nel Movimento, forse è proprio questa.