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Un governo da incubo. Girotondo fogliante sulla possibile convergenza Pd-M5s

Si deve (e si può) trattare con tutti in politica? Anche con chi è nemico della democrazia rappresentativa? E un accordo Pd-M5s sarebbe un dramma o un’opportunità?

Ma per governare è giusto, e possibile, parlare con tutti? E, venendo ancora più vicini alla cronaca degli ultimi giorni, che cosa sarebbe per l’Italia un anomalo accordo tra Movimento 5 stelle e Partito democratico (accordo anomalo viste le distanze oggettive, per non dire gli insulti prima del 4 marzo, che separano le due formazioni politiche): un dramma, una necessità, un’opportunità? E ancora: un partito anti sistema, nemico della democrazia rappresentativa, in sostanza impresentabile per farsi sistema e guidare il paese, può diventare presentabile solo perché ha preso molti voti? Le risposte a queste domande percorrono il lungo girotondo fogliante che pubblichiamo in queste pagine.

Incompatibilità oltre l’agenda politica

di Massimo Adinolfi

  

Per il Pd non è auspicabile fare un governo col M5s: finirebbe per essere messo nell’angolo, e per di più additato come “il vecchio che ci frena” a ogni occasione di contrasto. Del resto è impossibile giudicare questo nuovo M5s, per come si sta muovendo negli ultimi mesi e per come si presenta attraverso quel programma inconsistente elaborato dal quel professore dal cognome fantozziano. Non è valutabile: è diafano, senza identità. Per fare un’alleanza c’è bisogno che, al di là delle normali divergenze programmatiche, ci sia quantomeno la condivisione su alcune idee di fondo. E invece tra Pd e M5s ci sono delle incompatibilità che prescindono dall’agenda politica, e che attengono invece alla concezione stessa della democrazia, per non parlare della giustizia. Bisogna fare un accordo di governo? Allora che quantomeno si mettano in premessa le parole di Roger Shermann, membro del primo Senato americano, che quando si propose di inserire nel Bill of Rights il “diritto dei cittadini di istruire i propri rappresentanti su come votare”, una specie di democrazia diretta ante-litteram, si oppose dicendo: “Sarebbe un inganno per il popolo”. E aggiunse: “Se i rappresentanti fossero guidati da istruzioni, non vi sarebbe alcuna utilità nel deliberare”. Concludo dicendo un’ultima cosa: e cioè che se davvero, per senso di responsabilità venisse imposto al Pd, una volta di più, di portare una croce, allora che sia Mattarella a chiedercelo in prima persona, permettendo la nascita di un bel monocolore dem col sostegno di tutti gli altri partiti.

L’alleanza potrebbe convenire a Renzi

di Lucia Annunziata

 

Non converrebbe al Pd, ma potrebbe convenire a Matteo Renzi. Almeno, a determinate condizioni. L’ex premier può innanzitutto sfruttare questa trattativa per tornare assoluto protagonista della scena. In secondo luogo, se fosse lui a intestarsi questa apertura, otterrebbe da un lato una riabilitazione proprio da parte di chi lo ha ricoperto d’insulti per anni, e dall’altro una legittimazione internazionale. Si accrediterebbe, cioè, come il garante di un governo affidabile agli occhi dei principali esponenti dell’establishment italiano e internazionale: dal Quirinale al Nato. E infine, qualora fosse Renzi a guidare il Pd verso l’alleanza col M5s, a quel punto l’ex segretario avrebbe il controllo di una pattuglia parlamentare determinante ai fini della maggioranza parlamentare, e a quel punto potrebbe utilizzare quel suo potere come un’arma di ricatto, trasformando Camera e Senato in un vietnam quotidiano. In questo senso, a Renzi potrebbe convenire addirittura far partire un governo guidato da Luigi Di Maio, rinunciare a mettere i suoi uomini di fiducia nell’esecutivo, e poi logorare in breve tempo la leadership di Giggino. Del resto, qui la politica si mischia al testosterone: e la sfida tra Renzi, Di Maio e Salvini è una sfida fra tre capibranco al massimo della loro potenza sessuale. Dopodiché, va detto che il Pd rischia moltissimo, in questa manovra: finirebbe col recitare il ruolo che fu di Bertinotti al tempo del governo Prodi, con la surreale differenza che però, a fare gli estremisti che cannoneggiano i moderati, sarebbero proprio i Cinque stelle.

Un bene non negoziabile: la propria dignità

di Marco Archetti

 

“E’ una formalità o una questione di qualità? Non ricordo più bene, è una formalità?” si chiedeva il poeta che negli anni Ottanta stava bene e stava male, e me lo chiedo oggi io che poeta non sono e stavo benino, soprattutto da quando mi sembrava che l’abominevole ipotesi, quella del carrarmato populista di governo a doppio cingolo leghista e grillino, fosse scongiurata per interposto Berlusconi. Constatare che ora se ne ripropone una versione mono-cingolata per interposto Martina, ha generato il riacutizzarsi della mia psoriasi bollosa. Dunque no, non sto bene. E non è questione di formalità. Non nascondo che un brivido lo dà, sentire quei penta-bulli che di colpo parlano come presidi, seppur nel loro italiano asintattico e asintomatico di pensiero… E un brivido entusiasmante lo riserverebbe assistere a un Pd che riducesse a miti consigli i Grandi Sconsigliati… Ma mi chiedo: un alfabeto comune (che non c’è) su cui impostare giusto un balbettio, va cercato a forza? Ed è sensato eleggere a interlocutore di governo chi, come unico testo di riferimento non sbianchettabile, ha un’esortazione-insulto urlata agli ordini di un mistagogo? L’indisponibilità a certi contenuti va ribadita, anzi, frapposta come valore proprio perché non potrà mai esserne prezzo. Se crede nella politica come assunzione razionale di significato, il Pd scelga una buona volta se inabissarsi nei sargassi della grillo-democratura o prepararsi a nuove elezioni issando un bene non negoziabile: la propria dignità.

Per il Pd sarà comunque un suicidio

di Ritanna Armeni

 

Il Pd è costretto a scegliere fra due forme di suicidio. La prima – revolverata secca alla tempia – contempla il passaggio all’opposizione. Morte sicura e rapida per due motivi. Perché il “maggior partito di sinistra” – come qualcuno si ostina ancora a definirlo – oggi non sa neppure da che parte si comincia a fare opposizione e perché, con il rifiuto del governo con il M5s, si andrebbe immediatamente alle elezioni e quindi alla sconfitta certa. La Realpolitik, a questo punto, imporrebbe la scelta del governo, l’accordo col movimento di Grillo su alcuni punti che siano riconosciuti e apprezzati dal popolo del Pd. Ma chi non sa fare opposizione non sa neppure governare. Della coalizione sarebbe alleato subalterno e succube. Modererebbe tuttalpiù il programma pentastellato contrastando l’abolizione della legge Fornero, il ripristino dell’articolo 18 e il reddito di cittadinanza. Continuando, insomma, la politica sociale che ha provocato il disastro elettorale del 4 marzo. E perdendo ancora consensi. Tuttavia le elezioni si allontanano, l’estinzione – pensano i realisti, i sostenitori del meno peggio – è rinviata di qualche mese o anno. Un suicidio per avvelenamento è più lento di una revolverata alla tempia e si può sempre sperare nella scoperta di un antidoto. Quanto a Di Maio, il problema non è solo l’alleanza con il Pd, ma il governo stesso. Alla piazza si possono fare le promesse più demagogiche. Con l’abito grigio e la cravatta si può portare avanti la politica del panettiere (in quale forno faccio cuocere il pane? Pd o Lega?) ma per chi governa le proposte significano scelte e queste consensi acquistati o perduti. Di governo si può morire e anche in tempi rapidi. Se dovessi azzardare una previsione – e oggi è davvero un azzardo – direi che se si andasse a una alleanza Pd-M5s, alle prossime (e comunque vicine) elezioni si spianerebbe la strada alla vittoria decisiva del centrodestra. A larga egemonia salvinana.

Il governo non giustifica che ci si pieghi a tutto

di Sergio Belardinelli

 

Un governo del presidente con l’astensione di tutte le forze politiche, in attesa che il Parlamento approvi una nuova legge elettorale con la quale andare a nuove elezioni prima possibile: questo lo sbocco surreale, ma anche più probabile e forse auspicabile della situazione politica in cui ci siamo cacciati il 4 marzo. Un “contratto di governo” tra Pd e M5s? Sarebbe una sciagura senza compensi. Il M5s vada pure in malora, ma, nella situazione in cui siamo, non possiamo permetterci che vada in malora anche il Pd: bene o male (forse più male che bene) uno dei pochi soggetti politici minimamente decenti rimasti sulla scena politica italiana, almeno per quel tanto (poco) che riesce a garantire in termini di europeismo, rispetto dei conti pubblici e salvaguardia di alcuni principi del nostro stato di diritto. Dopo quello che M5s e Pd hanno detto agli elettori e si sono detti in campagna elettorale, secondo me è già grave che il Pd abbia fatto presagire, peraltro in modo assai maldestro, una qualche disponibilità al dialogo. Con quale faccia giustificherebbero un qualsiasi accordo di fronte agli elettori? La politica, è vero, è l’arte del possibile. Ma a renderla nobile è soprattutto la chiara consapevolezza che anche per il possibile ci sono dei limiti, che, per quanto importante, il governo non giustifica che ci si pieghi a tutto, anche a ciò che comprometterebbe la nostra dignità. Facciano dunque il governo coloro che hanno vinto le elezioni, se ci riescono, altrimenti si torni a votare: in democrazia la via maestra per non snaturare se stessi e non prendere in giro gli elettori.

Il Pd sa qual è la sua ragion d’essere?

di Luciano Capone

 

Il Partito democratico vive un momento molto complicato, ha subìto un tracollo elettorale che si inserisce nella più ampia crisi della sinistra in Europa. Il riformismo erede della terza via blairiana imboccato da Renzi è stato bocciato e alla vecchia socialdemocrazia dei fuoriusciti di Leu è andata anche peggio. Il Pd sembra essere di fronte a un bivio, costretto a scegliere tra due strade dissestate. Rispetto a questa situazione lo smarrimento è naturale e dopo le elezioni è stato istintivo il desiderio di stare all’opposizione, di qualsiasi cosa, per avere il tempo di raccogliere le macerie e capirci qualcosa. Nel disastro ha avuto anche la sfortuna di non potersene stare in disparte, all’opposizione di sovranisti e populisti. Si prefigurano così due alternative altrettanto rovinose: allearsi con il M5s mettendosi in una posizione subalterna con la prospettiva di farsi fagocitare oppure rifiutare il confronto rischiando di perdere altri voti in caso di elezioni anticipate? Il problema è che per sostenere qualsiasi delle due scelte il partito ha bisogno di una leadership e di una linea riconoscibile, insomma di un’identità politica. Se non tratta con il M5s cosa ha il Pd da proporre al paese? E se invece si siede al tavolo con il M5s, quali sono i punti irrinunciabili dell’accordo, quali le riforme da difendere e quali quelle da realizzare? Tutto questo non è chiaro a nessuno. La balcanizzazione del partito si è resa evidente nelle consultazioni con il presidente della Camera Roberto Fico, l’immagine dei quattro dirigenti rappresentativi di diverse correnti dava l’idea che ognuno fosse lì per marcare l’altro. Prima di decidere se trattare o meno con il M5s, il Pd dovrebbe ragionare sulla propria identità e sulla propria ragion d’essere. Ma a due mesi dalle elezioni questa discussione non sembra neppure iniziata e di tempo ce n’è sempre meno.

Capire quale sinistra occorre al paese

di Carlo Cerami

 

Nessuno tra i riformisti mette in dubbio la reciproca estraneità e ostilità. Sono due gli argomenti dei contrattualisti: garantire un governo ed evitare le elezioni; impedire la saldatura tra il populismo leghista e pentastellato. Anche al costo di sacrificare identità, posizionamento politico e sociale del Pd (i Cinque stelle non paiono possederne alcuna, sono effimeri) che vede le due forze radicalmente alternative. Vediamole.

1. Il governo c’è, in carica, sicché nessuna situazione di emergenza troverebbe il paese senza il pieno funzionamento degli organi costituzionali. Le elezioni anticipate non sono un male assoluto bensì relativo, che non può spingersi oltre la ricerca di un accordo vero, quale può essere soltanto quello tra populisti, con la fiera opposizione di quanti difendono il sistema politico democratico vigente, lo stato di diritto, le alleanze internazionali. Che sono minoranza in Parlamento.

2. La saldatura dei populismi non si combatte con formule false, con governicchi deboli e ricattabili. Ma facendo una gigantesca opposizione nel paese e nelle istituzioni. Per contrastare decrescita felice, giustizialismo, chiusura, torsioni xenofobe; ma anche assistenzialismo, spesa allegra, statalismo.

Vi è un terzo tema, sotteso ai primi due. Una parte della sinistra, specie quella fuoriuscita dal Pd ma non solo, preferisce Di Maio a Renzi. Sono persone cui è venuta meno la ragione fondante lo stare insieme in un partito. Per quanto mi riguarda, hanno troppa ruggine nei loro cuori; il loro punto di vista finisce inesorabilmente per far preferire Renzi e di queste tenzoni è cosparsa la storia del Pd degli ultimi anni. Non perché il Pd non necessiti di una pagina nuova. Perché la storia è cambiata, e pure l’attualità. Ma se la si fa rivendicando il molto di buono della stagione politica e di governo appena passata, difendendola dalle bugie e dalle caricature, si va avanti e si va oltre; altrimenti si va a sbattere e si sparisce dalla scena. Nello specifico, ignominiosamente.

No all’ammucchiata per un governo impossibile

di Annalisa Chirico

 

Al governo, purchessia. La cupiditas dominandi gioca brutti scherzi. Come sempre, il mio banco di prova è il parrucchiere: acconcia molte parlamentari e molta gente normale, rivolge domande e ascolta pure le risposte, s’informa di politica quel tanto che basta, insomma è una persona sana, ed è un formidabile termometro sociale. “Ma che Renzi vuole anna’ ai numeri negativi?”, domanda tranchant. Il “contratto di governo alla tedesca”, proposto da Luigi di Maio, è una cosa bellissima, se soltanto vivessimo in Germania e di Maio somigliasse, almeno un po’, a Frau Merkel. Esiste invece una distanza abissale tra il movimento della Casaleggio Associati e il partito dei Kohl e degli Adenauer. Pur di accasarsi a Palazzo Chigi, di Maio ha riesumato doppi forni e convergenze parallele, si è convertito ad atlantismo ed europeismo, tra poco chiederà la tessera Pd. Tutto lecito: del resto, quando gli ricapita? Ma un esecutivo Pd-M5s non sta né in cielo né in terra. Non servirebbe all’Italia e sarebbe un autentico harakiri per l’unico leader sul quale il Pd possa ancora contare: Matteo Renzi. Il Pd ha condotto una campagna elettorale di contrapposizione frontale con il M5s: dal Jobs Act alla riforma Fornero, dal garantismo alle alleanze internazionali, dai vaccini alle fake news. Combinare un’ammucchiata per un esecutivo impossibile non gioverebbe a nessuno. Un salario minimo e magari un reddito d’inclusione esteso non bastano. Gli italiani si aspettano un progetto per il futuro. Governi chi ha vinto, se n’è capace. Altrimenti si torni al voto, dopo aver emendato questo mefitico proporzionalismo elettorale. Il Pd stia all’opposizione, dove i cittadini l’hanno spedito. E si faccia venire qualche buona idea, in caso contrario si profila un destino sinistro: rue de Solférino, Paris.

 

Due condizioni per un’alleanza

di Paolo Cirino Pomicino

 

Nelle democrazie parlamentari vi sono alcune norme di comportamento non scritte ma marchiate a fuoco nella cultura democratica. La lotta politica non può superare limiti di decenza nel linguaggio parlamentare perché l’intera Aula rappresenta la sovranità popolare e ingiuriarne una parte significa ingiuriare una parte del popolo. Inoltre il lavoro parlamentare obbliga ciascuna delle forze politiche a ricercare molto spesso quel minimo comune denominatore nelle varie leggi per poter allargare al massimo l’area del consenso. Purtroppo il crollo delle culture politiche ha tolto al Parlamento ogni nobiltà di linguaggio e negli ultimi anni vedere una seduta delle Camere è come vedere un’aula di un liceo occupata da un movimento studentesco urlante e insultante. La ricerca di una maggioranza non può che coinvolgere tutti con un solo limite, a nostro giudizio, e cioè che ciascun interlocutore si riconosca nelle regole della democrazia rappresentativa, che resta un patrimonio comune, e si riconosca nelle alleanze che il paese ha scelto in 70 anni di vita repubblicana. Una volta verificate queste condizioni ciascuna forza politica deve parlare con tutti per costruire una maggioranza di governo. Nello specifico l’alleanza Pd-M5s si porta dietro come un macigno l’uso sguaiato delle invettive dei Cinque stelle rivolte al Pd e a tutti gli altri negli ultimi anni ma innanzitutto non ci sembra rispetti una delle condizioni prima dette e cioè il riconoscimento della democrazia rappresentativa come strumento della nostra democrazia politica. Non sembri questa una amenità dialettica. La democrazia diretta ha nel suo seno il germe dell’autoritarismo e il modello che i Cinque stelle si sono dati per il proprio movimento lo testimonia in maniera quasi scolastica. Contrariamente alla vulgata corrente noi riteniamo per quanto abbiamo detto il M5s un partito di destra (anche se come spesso è capitato nella storia nazionale vi sono fette di elettorato di sinistra) ma la sua fragilità culturale spesso si trasforma in opportunismo per cui ciò che dice la mattina spesso non vale la sera (vale la pena ricordare che i Cinque stelle portarono al voto alla Camera una risoluzione perché l’Italia uscisse dalla Nato). Detto questo personalmente riteniamo possibile una tale alleanza se la guida venisse affidata a un uomo del presidente della Repubblica a garanzia di quelle due condizioni prima ricordate. Se questo non accade un’alleanza Pd-M5s dovrebbe imporre a tutti, Pd compreso, il massimo della vigilanza democratica riscoprendo nel contempo una saggezza programmatica finora sconosciuta.

Lo scandalo necessario

di Francesco Cundari

 

Scrittori, giornalisti, attori e registi esortano il Pd ad appoggiare un governo Di Maio, da ogni possibile pulpito: vibranti interventi televisivi, pensosi editoriali, persino video online generosamente autoprodotti. Non mi stupisce, perché penso che per molti dei nostri intellettuali qualsiasi minaccia, anche una feroce dittatura, sia preferibile a una brutta figura. E dopo avere predicato per decenni che le posizioni del Movimento 5 stelle erano l’essenza della vera sinistra (da prima ancora che il movimento nascesse), sentire ora i suoi rappresentanti dirsi ben felici di andare al governo con l’estrema destra, cioè con la Lega lepenista di Salvini, si capisce che li preoccupi e li turbi. Mi spiace per loro, ma è uno scandalo necessario: l’invocazione della galera per gli avversari, l’uso sistematico dell’insinuazione, dell’insulto e della diffamazione, il disprezzo per i partiti e il Parlamento, l’idea che i diritti delle minoranze, degli imputati, degli immigrati siano sempre e solo ostacoli sulla via della sicurezza e della giustizia, tutto questo non è la vera sinistra, ma l’estrema destra. Chi vuole l’accordo Pd-M5s vuole anzitutto perpetuare questo equivoco, grazie al quale l’intero campo da gioco è occupato da idee, principi, parole d’ordine dell’estrema destra, che in questo modo ha la fantastica opportunità di combattere con due eserciti e sotto due bandiere, fare tutte le squadre e tutte le parti in commedia, e vincere di conseguenza tutte le partite che contano. E’ ora di spezzare l’incantesimo.

 

 

Agli elettori la responsabilità di spezzare l’impasse

di Giuseppe De Filippi

 

Ha senso, politico e logico, andare a trattare come partner di minoranza in una coalizione di governo se si viene riconosciuti come portatori di una specifica posizione politica, minoritaria e concorrente ma rilevante e significativa (i laici nel pentapartito, i socialisti nel centrosinistra, i liberali e poi i socialdemocratici in Germania nei governi coi democristiani). Non ha senso andare a fare semplicemente e puramente i portatori di voti, richiesti anche di abiura del proprio passato, in soccorso al partito maggioritario. Questa è una delle regole generali ma è quella più utile per capire l’impasse italiano. Perché la domanda che arrovella il Pd è senza risposta per un banale errore di orientamento: quella domanda andava posta ai Cinque stelle. E’ dal partito di Grillo e Casaleggio che sarebbero dovute arrivare indicazioni e valutazioni del contributo atteso dal Pd in termini politici. Lo so che oggi sembra un discorso strambo, rovesciato rispetto alla percezione ordinaria della situazione, ma la norma è questa. E l’evidenza dei fatti di questi giorni ci porta già lontano dalla possibile percorribilità di un’alleanza così squilibrata, in cui il maggiore non solo comanda ma nega l’identità propria del partner minore. E non valgono certo a cambiare le cose quelle tardive e insincere parole di Luigi Di Maio sul rispetto per il Pd. Insomma in direzione Pd voterei “no” e se non bastassero le precedenti considerazioni di logica politica proporrei un banale ragionamento di logica parlamentare: come vi trovereste in una maggioranza pungolata all’interno da Pietro Grasso e bastonata all’esterno da Matteo Salvini? Cinque anni così non li auguro a nessuno, ma peggio sarebbero due anni o un anno e poi un voto drammatico. Le elezioni invece sono un buon modo per trasferire agli elettori la responsabilità di spezzare l’impasse. E se non ci riuscissero si tornerà al confronto parlamentare, ma con qualche lezione appresa e magari più capacità tecniche di trattativa. 

Il dialogo non con Salvini-Di Maio ma con i loro elettori

di Claudio Giunta 

 

Dopo la vittoria di Trump è stato molto visto online e ha fatto molto ridere un video di Jonathan Pie, un comico inglese che nei suoi sketch fa la parte di un giornalista televisivo che dice le solite bugie quand’è in onda e la verità quando il collegamento è finito e ad ascoltarlo c’è solo il regista in studio (“Morning, Tim!”). Nel video post-Trump, fuori onda, Pie osservava che la sconfitta di Hillary Clinton non era dovuta al fatto che la Clinton è una donna ma al fatto che “non offriva assolutamente nessuna prospettiva di cambiamento: same old shit”. Trump invece rappresentava un cambiamento, “un cambiamento terrificante, ma comunque un cambiamento”. Un altro candidato democratico avrebbe fatto meglio? Può darsi, ma – continuava Pie – il fatto è che questo candidato avrebbe dovuto conquistarsi i voti al di fuori della comfort zone del pensiero liberal, e questo non sarebbe stato possibile, perché la sinistra “ha vinto la battaglia culturale” nei media, nelle scuole, nelle università, e tende così a sottrarsi al dibattito – a un dibattito che parta dai dati di realtà, non dall’Ideale – e a considerare come aberrante, deplorable, “ogni altro modo di vedere il mondo”. Prendere sul serio le ragioni, anche le cattive ragioni degli altri: sarebbe stata questa la cosa da fare, ma non era stata fatta. Di qui Trump. Di qui anche il tandem Salvini-Di Maio, e il loro “terrificante cambiamento”? Possibile. Prendere sul serio le loro ragioni, non tutte cattive, sarebbe stata forse la cosa giusta da fare – ma qualche anno fa, qualche mese fa, e insomma prima delle elezioni. Dopo le elezioni, adesso, mi pare che ci sia soprattutto da tener ferme le proprie idee, e da provare a convincere civilmente il maggior numero possibile di persone che le idee del tandem Salvini-Di Maio sono sbagliate, puerili, irrealizzabili, o nefaste se realizzate. Il dialogo non dovrebbe essere con Salvini-Di Maio, ma con i loro elettori.

Per una riforma istituzionale essenziale

di Pietro Ichino

 

C’è un impegno programmatico sul quale oggi è probabilmente possibile mettere insieme una maggioranza molto ampia, e che sembra fatto apposta per superare i veti incrociati fra i tre poli. E’ quello di una riforma istituzionale essenziale, della cui necessità sono convinti anche gran parte di quelli che hanno votato No al referendum costituzionale. Ridotta all’essenziale, la riforma potrebbe consistere nell’attribuire alla sola Camera dei deputati il compito di dare la fiducia al governo e nel prevedere un doppio turno elettorale alla francese. Anche il M5s, a questo punto, dovrebbe esservi interessato. Quando la “tempesta perfetta” delle squalifiche inappellabili reciproche tra le forze politiche si sarà sfogata, il capo dello stato potrà dunque far leva sulla necessità evidente e condivisa di questo passaggio, per dar vita a un governo di transizione costituzionale cui competerebbe ovviamente anche l’adempimento degli obblighi internazionali dell’Italia, a cominciare da quelli europei riguardanti i nostri conti pubblici. Il Pd fa bene a non mettere ora il proprio timbro su questa prospettiva; ma è evidente che questo esito della crisi costituirà la conferma della bontà delle sue posizioni, per quanto impopolari. Per coltivare questa prospettiva, però, occorre che i dirigenti Pd, tutti, smettano immediatamente di partecipare al gioco del “mai con questi” e “mai con quelli”. Quali che siano “questi” e “quelli”.

Trattare, per capire che un accordo è proibitivo

di Emanuele Macaluso

 

Sono convinto che il Pd debba trattare. Per un motivo semplice: mostrare con chiarezza al proprio elettorato i motivi per i quali realizzare un accordo di governo col M5s è proibitivo. Se si rifiutasse di sedersi al tavolo, gli verrebbe al contrario addossata la responsabilità del mancato patto. Insomma, la verifica va fatta, altrimenti si passerebbe per coloro che hanno detto no a prescindere. Invece il gruppo dirigente democratico deve dimostrare in modo inequivocabile perché una eventuale alleanza, che a mio avviso comunque non si realizzerà, non ha alcun presupposto per esistere. Innanzitutto, il premier. Luigi Di Maio resta il candidato unico del M5s, ma è una figura che ormai è compromessa per essersi esposta in modo eccessiva con la Lega. E’ evidente che l’unico obiettivo di Di Maio è andare a Palazzo Chigi. Dopodiché, i contenuti. Prima di parlare di qualsiasi alleanza, vanno affrontati dei problemi essenziali. Il primo è quello della democrazia parlamentare, così come è prescritta dalla Costituzione, che i grillini vorrebbero trasformata in una democrazia virtuale. E poi, il problema della giustizia. I Cinque stelle sono quelli che volevano Nino Di Matteo come ministro, sono quelli che si sono opposti alla riforma del sistema penitenziario, che era una legge di civiltà. Il giustizialismo non c’entra nulla con la sinistra, e senza una giustizia giusta, non c’è democrazia.

Alleanza assurda, un segno del declino

di Giulio Meotti

 

Era già assurda e cinica l’alleanza fra la Lega (il partito di riferimento del polmone economico e produttivo dell’Italia) e i Cinque stelle (il partito che ha fatto il pieno dei voti al sud che vorrebbe far pagare al nord il reddito di cittadinanza con un bagno fiscale terrificante), si profila ora un’alleanza non meno assurda fra i Cinque stelle e il Partito democratico. Sarebbe la morte di una sinistra riformista, sempre che il Pd abbia ancora quella vocazione (ce l’ha mai davvero avuta?). I pentastellati sono il partito della decrescita felice, dell’assistenzialismo drogato di debito pubblico, del più sordido giustizialismo, del moralismo antipolitico, di una politica estera antagonista ai migliori valori su cui è fondata la tradizione occidentale atlantista e filoamericana, dell’avversione a Israele, del pacifismo terzomondista, del pauperismo, del complottismo come forma mentis, del pubblico che si mangia il privato. Su quale base, se non a sancire la resa dei conti interna al Pd tutta a favore dei perdenti della sinistra radicale e post-comunista, potrebbe il partito di Matteo Renzi – il partito del Jobs Act, del salvataggio strategico delle banche in crisi, delle tentate liberalizzazioni, della produttività, dell’occupazione, del rifiuto del ricatto della magistratura militante, del discorso renziano alla Knesset – fondare un’alleanza di governo con i Cinque stelle? Sarebbe un altro segno del declino tutto italiano.

Salvate il soldato Martina

di Umberto Minopoli

 

Né un dramma, né un’opportunità. Una sciocchezza. E un’inutile autocombustione per il Pd. Dramma nessuno. Il governo minimo è obbligato. L’Europa vigila sui conti pubblici. E i Cinque stelle si sono dimostrati abbondantemente trasformisti, a fini governisti, da sbianchettare e archiviare le fanfaronate più indigeribili del loro programma. Ci sarebbe, piuttosto, da lamentarsi dell’opposto: occorrerebbe (ci richiama Draghi) accelerare e rilanciare le riforme utili a stabilizzare la crescita che tentenna. Altro che “ritoccare”, ad esempio Jobs Act e pensioni o i grandi lavori. Ma quello Pd-M5s sarebbe un governo minimo, dal riformismo esangue e dove il meglio della commedia sarà evitare grandi danni. Prevedo più mediocrità che rivoluzioni. Né dramma, né opportunità. Solo un discreto boost alla stagnazione dell’economia. E l’arrivederci alla ripresa economica. Un clima di mediocrità e di tirare a campare, per il povero Pd, sarà però l’inferno: si dovrà caricare delle garanzie all’Europa che non si faranno danni, si dovrà caricare delle garanzie da dare ai ceti produttivi, al nord intero, ai mercati e agli investitori che non si prende una strada di dilapidazione assistenziale, si dovrà caricare di una gestione sensata e senza sbrachi demagogici (di destra ma, anche, di sinistra) su sicurezza, immigrazione ecc. Tutto ciò fronteggiando un’opposizione di centrodestra unita, col vento in poppa, motivata dalla hubris di un’ingiustizia subita e che vola verso il 40 per cento. Un governicchio con Di Maio sarebbe un piccolo passo mediocre per l’Italia ma un grande passo verso il dissolvimento del Pd. Salvate il soldato Martina.

Alleanza vorrebbe dire fare un favore al populismo

di Andrea Minuz

 

Ascoltiamoli con attenzione. Non dobbiamo essere spocchiosi. Abbiamo il dovere di provarci. Bisogna ammettere che prendere una batosta alle elezioni e poi assumersi la responsabilità di un mancato governo sentendosi in colpa se non si fa un’alleanza col M5s è tra le più formidabili acrobazie nella storia recente della sinistra, di quelle che lasciano esterrefatti, come la rovesciata di Cristiano Ronaldo. Il partito che per vent’anni ha urlato all’Apocalisse di fronte a un’intesa sulle riforme con Berlusconi si scopre improvvisamente pragmatico, post-ideologico, capace di scendere a patti col nemico per “il bene del paese”. Bene, direte voi. Era ora. Magari. L’alleanza con il M5s è invece il punto più ferocemente ideologico mai toccato dal Pd. Si esce dall’opposizione destra-sinistra per consegnarsi armi e bagagli al nuovo, scintillante schema che contrappone “élite” e “popolo” (quello che ha permesso a Trump di vincere le elezioni). Se si entra nello schema élite e popolo, manco a dirlo, il Pd deve stare col popolo. Un partito democratico e progressista dovrebbe invece dedicarsi anima e corpo a smontare questo schema, infido come una fake-news fatta bene, invece di lasciarsene divorare. Il M5s non è una forza post-ideologica ma ideologicamente vuota, cioè in grado di diventare di sinistra se si allea col Pd e sovranista se va al governo con Salvini (per questo il programma si può cambiare in continuazione). Dargli la sponda “di sinistra” è il più grande favore che si può fare oggi al populismo. “Ascoltare tutti” non ha a che fare con la democrazia (nessuno infatti sognava di dirlo in tempi di antiberlusconismo rampante). Significa casomai applicare “l’uno vale uno” alla dialettica politica e ammettere che il populismo ha già vinto prima di iniziare la battaglia.

Un governo M5s-Pd sarebbe il male minore

di Giovanni Orsina

 

No, al Pd di certo non converrebbe fare un governo col M5s: finirebbe col fare il partner di minoranza, tanto più in presenza di un premier grillino. E però, va detto che pure bisogna considerare, laddove un governo non si facesse, quale sarebbe l’alternativa. E di fronte alla prospettiva di un ritorno alle urne, che si risolverebbe in una nuova e ancor più pesante batosta per i dem, allora è evidente che un accordo col M5s, ora, costituirebbe il male minore. Inoltre, se Matteo Renzi si tirasse indietro, si inimicherebbe molta parte di quell’establishment finanziario e imprenditoriale che continua a fare pressioni sempre maggiori perché si giunga a un accordo tra Pd e M5s. Che d’altro canto converrebbe senz’altro, invece, al paese. Premesso che non ci libereremo in tempi rapidi dei grillini, e constatato che, avendo il 32 per cento, al governo è giusto che ci vadano, allora è meglio che al loro fianco, nell’esecutivo, ci sia una forza responsabile che faccia da tutore istituzionale. Ruolo nobile, per il Pd, ma evidentemente logorante. Il rischio, per i dem, è insomma quello di finire del tutto marginalizzati, a meno che non riescano a strappare dei ministeri pesanti, e attraverso quelli dimostrare la notevole differenza che separa un Minniti da un Toninelli. Ma del resto, se ad andare a buon fine – cosa che io continuo a ritenere per nulla plausibile – fosse l’intesa tra M5s e Lega, allora si creerebbe un bipolarismo fondato sulla contrapposizione tra forze pro-establishment e forze anti-establishment, e alimentare questa frattura sarebbe pericolosissimo, per l’Italia.

E se Pd e Forza Italia avessero esaurito il loro ruolo?

di Angelo Panebianco

 

Non ho sfere di cristallo e non amo dare consigli ai politici. Mi limito a constatare che il Pd non dovrebbe averci nulla a che fare, col M5s, e che un’alleanza tra questi due partiti è priva di qualsiasi logica, se la logica ancora contasse in politica. E francamente, a me sembra quantomeno singolare che si chieda a chi è stato sconfitto alle elezioni di assumersi delle responsabilità in questa situazione. Pertanto, credo che la posizione inizialmente assunta da Matteo Renzi fosse ineccepibile: chi ha vinto governi, fermo restando che di vincitori veri e propri – se non a livello mediatico – nel 4 marzo non ce ne sono stati. Ma era in fondo anche inevitabile che la tentazione di un accordo col M5s aprisse uno scontro all’interno del Pd. D’altronde, c’è una incontestabile contiguità tra i due elettorati, innanzitutto intorno al giustizialismo – tema che dimostra come in parte il grillismo sia figlio della cultura di una certa sinistra di questi ultimi decenni. Ma la contrapposizione non è solo questione di rivalità all’interno del gruppo dirigente del Nazareno. E’ figlia invece di un cambio di epoca: sia il Pd sia Forza Italia, seppur in momenti diversi, sono nati nell’ottica di uno scontro bipolare. Ora che il paradigma del maggioritario è stato abbandonato, è chiaro che a essere messa in discussione è la ragione sociale stessa dei due partiti. Che magari – chissà? – hanno semplicemente esaurito il loro ruolo.

Il gioco d’azzardo di Renzi

di Adriano Sofri

 

Un accordo fra Cinque stelle e Pd non può avvenire, allo stato attuale, se non con l’attiva adesione di Matteo Renzi. Il quale ha finora garantito la propria fermezza: Hier stehe Ich. La fermezza ha per lui un costo crescente. A recalcitrare non sono solo i suoi avversari, dentro il Pd e fra i fuorusciti, ma anche, più prudentemente, alcuni dei suoi. L’argomento per cui l’accordo Cinque stelle-Salvini sarebbe il purgatorio obbligato prima di riuscire a riveder le stelle (tutte), vacilla: in genere questi purgatori si comportano come inferni, e rischiano di durare un’eternità. Inoltre: il presidente della Repubblica, persona quant’altre mai con la testa sulle spalle, non intende rimandare gli italiani a votare – pazzia evidente anche per chi abbia testoline più dondolanti – e tanto meno favorire un governo che affronti lo stato del pianeta con il ceffo di Salvini. Inoltre: la sinistra dentro e fuori del Pd ha un proposito supremo, far fuori definitivamente Renzi, che molto ha fatto per meritarselo, ed è oggi unificata dall’inclinazione all’apertura verso i Cinque stelle. Una volta che Renzi se ne appropriasse sequestrerebbe di colpo l’intero centrosinistra, il quale avrebbe bisogno di tempo e sali per riaversi. Renzi ha una maggiore licenza di voltafaccia teatrale, cui si adeguerebbero a bocca aperta i suoi più fidati parlamentari e a bocca spalancata i suoi recenti intervistati in bicicletta, che però sono fiorentini e a Santa Croce e dunque a pochi metri dal sepolcro di quel Niccolò. Da questa provvisoria unità ammutolita Renzi potrebbe proporsi di negoziare con Di Maio da una posizione meno debole, e di proporsi la strategia win-win (comunque vada sarà un successo) sopra accennata: o di imporre l’agenda ai Cinque stelle, e rivendicarlo, o spingerli verso la rivalità intestina e la lacerazione. Gioco d’azzardo. Ognuno sa che Renzi è uno spericolatissimo giocatore d’azzardo, già sul punto della segnalazione e dell’esclusione da tutti i casinò, mentre Di Maio sembra un impiegato delle assicurazioni. Scrivo di venerdì – chi, e se, leggerà, lo farà di lunedì – e si dice già che Renzi riservi il suo colpo di scena alla conversazione con Fabio Fazio, il migliore degli ospiti. Dunque l’avrete già saputo, se così fosse stato. Se no, no.

Sciacquare i panni nel fiume dell’opposizione

di Carlo Stagnaro

 

Il contratto proposto dal Movimento 5 stelle al Partito democratico spiega esattamente perché quel matrimonio, nell’interesse del paese, non s’ha da fare. Beninteso, nei dieci punti dei grillini non c’è quasi nulla che, in sé, non sia condivisibile: chi mai potrebbe essere contrario a “costruire un futuro per i giovani e le famiglie” o a “sicurezza e giustizia per tutti”? Ma ciascuno di quegli obiettivi – se così vogliamo chiamarli – poggia su un’assunzione implicita: che qualunque problema possa (e debba) essere risolto dallo stato attraverso più leggi e più spesa. Gli eventuali ostacoli non derivano dall’irrealizzabilità dei propositi (“protezione dai rischi”, parbleu!) ma dalle Forze oscure della reazione in agguato: sicché i mercati, la globalizzazione, l’Europa, la disciplina di bilancio non solo vanno ignorati, ma addirittura sradicati. Tale rifiuto infantile dei vincoli trova perfetta consonanza in quella parte del Pd che ha mal digerito la parabola riformista degli ultimi vent’anni (e in particolare la sua fase renziana): una maggioranza Pd-M5s ruoterebbe attorno all’illusione dell’onnipotenza dello stato, con un’opposizione – il centrodestra a trazione salviniana – ugualmente fiduciosa nell’intervento pubblico. Il Pd ha una speranza di restituire un senso alla sua storia riformista solo sciacquando i panni nel fiume dell’opposizione: come le crisi sono l’igiene dell’economia, l’opposizione può essere l’igiene della politica. Del resto, ogni volta che nella storia una maggioranza si è coagulata non su una visione della società, ma su un melting pot di buone intenzioni, i risultati sono stati disastrosi. Un patto Pd-M5s sarebbe l’impersonificazione politica di Donna Prassede, della quale Alessandro Manzoni dice: “Parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l’arme di un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo”.

Resistenza al fascismo 4.0

di Marco Taradash

 

L’Italia è sulle soglie di una trasformazione autoritaria, chiamatela come volete (fascismo 4.0?). Il Movimento 5 stelle e la Lega hanno la maggioranza dei seggi in Parlamento e sono legati, al di là del conflitto sulla premiership (l’unico valore non negoziabile dei grillini) da obiettivi politici comuni. Li uniscono la vicinanza a Putin, l’ostilità all’Unione europea e all’euro, il demagogico e/o etnofobico atteggiamento verso i migranti, il sovranismo e/o protezionismo. Un governo del genere rappresenterebbe una tremenda svolta politica, ma non autoritaria. Il M5s però ha una marcia (su Roma) in più. E’ stato costruito per la dittatura e ce lo chiarisce ogni giorno. I mezzi sono proclamati e fanno assomigliare Di Maio a Orban: l’occupazione dell’economia pubblica e quindi privata (attraverso la Cdp e la nazionalizzazione delle banche), l’asservimento dei media (dalla Rai a Mediaset) peraltro già a buon punto, la trasformazione del sistema giudiziario nei termini di uno stato di polizia (la “riforma” Di Matteo-Davigo sull’asse Mani Pulite-Antimafia), l’azzeramento del Parlamento con l’introduzione del vincolo di mandato, già da loro realizzata attraverso il regolamento dei gruppi parlamentari. Il fine è altrettanto chiaro e proclamato: sostituire l’inconcludente e corrotta democrazia rappresentativa con la democrazia diretta, espressione della volontà generale, i cui interpreti sono il plenipotenziario “garante a vita” Beppe Grillo e la misterica Piattaforma Rousseau, agitata da una rozza soldataglia e gestita autocraticamente dal clan dei Casaleggesi. Solo un partito culturalmente sbandato e politicamente in disarmo aprirebbe da posizioni di minoranza una “trattativa” col M5s. Che va invece combattuto creando una alternativa politica, che non può che essere l’unione liberaldemocratica delle forze che si oppongono al fascismo 4.0 (c’è già una mail per aderire a questa nuova resistenza: [email protected]).

Sì, parlarsi, ma nella chiarezza delle scelte

di Marina Valensise

 

Certo che devono parlarsi. A questo serve il Parlamento. E in una democrazia rappresentativa parlarsi è indispensabile per maturare un compromesso, garanzia di libertà. Dunque ben venga il rapido apprendistato dei Cinque stelle che forse segna l’abbandono della democrazia diretta, da una società privata, e dell’annessa utopia. Ma se parlarsi tra forze diverse è indispensabile, è bene che non resti solo una posa, o un semplice espediente per arrivare al potere senza pagare pegno, come la disinvoltura di Luigi Di Maio & Co nel passare da un forno all’altro indurrebbe a pensare che sia. E meglio ancora sarebbe se il parlarsi, in vista di una soluzione condivisa per affrontare una situazione di emergenza, includesse tutte le forze in campo, non solo alcune. In realtà, parlarsi da solo non basta: bisogna farlo in modo trasparente, informando gli elettori, dunque prestarsi al confronto aperto, anziché svicolare dal dibattito in nome dell’anti-casta. E poi bisognerebbe rendere chiari oltreché trasparenti i processi decisionali, anziché limitarsi a sbianchettare i programmi. Perciò ben venga il dialogo al posto dell’intransigenza, l’incontro al posto dell’insulto, il contratto al posto dei veti. Solo che, oltre a indicare il foro per dirimere eventuali controversie, dovrebbero scaturirne anche scelte precise – reddito di cittadinanza o Jobs Act? uscire dall’euro o rifondare l’Europa? aumentare la spesa o ridurre il debito pubblico e in che modo e con quali fondi? – e ne saremmo tutti più contenti. Altrimenti parlare e parlarsi non sarà che un’altra scusa per perdere tempo, e la premessa sicura alla perdita di consensi e alla perdita di peso di tutta l’Italia.

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