Un tappo chiamato Di Maio

Claudio Cerasa

Da cinquanta giorni l’Italia perde tempo con un non-candidato premier che con i capricci tiene in ostaggio un paese. L’imbroglio grillino, lo scongelamento di Renzi e la ragione per cui una figura terza può portare il M5s al governo (anche con il Pd)

Nella politica parlamentare, di solito, la figura del tappo ha due significati diversi. Esistono i tappi utili, che permettono di preservare con cura ciò che è raccolto in un contenitore, ed esistono i tappi inutili, che impediscono all’energia che è racchiusa in un recipiente di prendere forma. Quando servono a proteggere qualcosa, i tappi è bene conservarli. Quando servono a rallentare un processo naturale, i tappi è bene farli saltare. Nel dibattito politico degli ultimi giorni, nel dibattito politico legato cioè alle consultazioni, al futuro governo, alla maggioranza possibile, al rischio elezioni, ci sono due leader di nome Luigi Di Maio e Matteo Salvini che da settimane si muovono sulla scacchiera parlamentare senza rendersi conto che se un governo ancora non nasce il problema non è legato ai capricci dei possibili alleati.

  

Il problema è più semplice: ci sono due vincitori che non avendo vinto del tutto le elezioni, ma illudendosi di averlo fatto, sono diventati, per questa legislatura, l’equivalente di due inutili tappi. Uno dei due tappi, Matteo Salvini, ha capito prima dell’altro tappo, Luigi Di Maio, che sarebbe stato impossibile far nascere un governo di centrodestra, o un governo con il centrodestra, senza dichiarare prima la propria disponibilità a offrire a qualcun altro la premiership e la guida del paese. Almeno a parole, Salvini lo dice da tempo, e se oltre al tappo della sua premiership fosse saltato anche il tappo dei suoi veti, per esempio al Pd, un governo forse sarebbe nato da un pezzo. Il vero tappo che dovrebbe saltare – e che invece non salta e che sta rallentando e rendendo quasi impossibile ogni trattativa di governo – è quello che ha il profilo bene identificato con il volto di Luigi Di Maio.

  

Fino al 4 marzo, Di Maio è servito al Movimento 5 stelle per preservare e tenere insieme le varie energie raccolte nel contenitore del grillismo. Dopo il 4 marzo, invece, la figura di Di Maio è diventata l’ostacolo principale per la nascita di un governo. Sulla base di un imbroglio politico, Di Maio si è autoproclamato candidato premier all’interno di un contesto politico in cui il candidato premier non esiste. Sulla base di un imbroglio culturale, sulla base cioè dell’idea che ogni presidente del Consiglio nominato e non eletto dal popolo sia il capo di una banda di golpisti, Di Maio si è autoproclamato come unico grillino degno di ricevere un incarico per formare un governo, senza considerare il fatto che la Costituzione italiana, la più bella del mondo, esclude che il presidente del Consiglio possa essere nominato da qualcuno diverso dal capo dello stato. Di Maio, dunque, non può permettersi di fare quello che oggi sarebbe naturale per far nascere un governo con il centrodestra e persino con il Pd, ovvero sia cedere la premiership a una figura terza. Eppure per il Movimento 5 stelle, se il non candidato premier prendesse atto che in un sistema proporzionale il capo politico di un partito può diventare premier automaticamente solo a condizione che il suo partito ottenga la maggioranza dei parlamentari, ci potrebbe essere lo spazio per tentare di fare un governo sia con il centrodestra sia con il centrosinistra.

    

Con una figura terza, Forza Italia si sentirebbe più garantita e potrebbe persino concedere alla Lega, senza rotture traumatiche, di far nascere un governo con il Movimento 5 stelle. Allo stesso modo, con una figura terza, anche il Pd, e in particolare Matteo Renzi, potrebbe avere lo spazio per tentare di costruire un’alleanza (pazza) con i grillini, come suggerito ieri sul Foglio dal capo di Eataly Oscar Farinetti. Non sarà sfuggito a Di Maio che all’interno del Pd la discussione sul dialogo con i 5 stelle ha fatto qualche passo in avanti anche tra i parlamentari più vicini all’ex segretario e il no assoluto al “governo con il Movimento 5 stelle” è via via diventato sempre di più un no al “governo con Luigi Di Maio”. Se non fosse chiaro, il messaggio è questo: per ragionare su un governo con il 5 stelle bisogna ottenere qualcosa in cambio, occorre uno scalpo, e quello scalpo, oggi, non può che chiamarsi Di Maio. In sintesi: il “senza di me” può diventare “con me” solo trasformandolo in un “senza di lui”. Non è ancora impossibile che in questa legislatura nasca un governo guidato da Luigi Di Maio. Così come non è escluso che il voto di domenica in Friuli-Venezia Giulia venga utilizzato da Salvini per dar vita a un nuovo predellino di centrodestra da portare in dote al Movimento 5 stelle.

   

Tutto è ancora possibile – così come è possibile che domenica sera da Fabio Fazio Matteo Renzi lanci una proposta per una fase costituente, per passare dalla Seconda alla Quinta repubblica, rivolta anche ai 5 stelle. Ma quel che è certo oggi è che se l’Italia ha buttato nel cestino cinquanta giorni e passa di consultazioni la responsabilità è prima di tutto di un tappo che non si ostina a saltare: quello di Luigi Di Maio. Da lunedì, probabilmente, non ci sarà dibattito possibile per un governo senza ripartire da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.