Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

I partiti e la scusa della “base”

Redazione

Se i leader si limitano a ratificare gli umori della gente, c’è un problema

E insomma sarebbe “la base”, ora, a dettare la linea. A imporre certe mosse, a sconsigliarne altre. E’ “la base”, lasciano intendere i parlamentari del M5s – pur senza dirlo apertamente, ché evidentemente Casalino non vuole – a impedire l’accordo col Pd. E non a caso Luigi Di Maio si sente in dovere di precisare, alla fine del colloquio con Roberto Fico, che non di “alleanza” si tratta, ma di semplice “accordo di governo”. Visto mai che su Facebook dovesse rialzarsi la buriana dei commenti indignati. La base osserva, la base giudica, la base non perdona. La base soffre, poi. Ah, se soffre: l’avvicinamento del M5s al Pd, garantisce il Corriere, “ha creato molti malumori anche nella base”. E soprattutto: la base ha sempre ragione. Anche per Matteo Renzi, evidentemente, se è vero, come riporta Repubblica, che è proprio perché “la base non vuole l’accordo” che Matteo Renzi, dopo aver “improvvisato un mini sondaggio in piazza” Santa Croce, a Firenze, avrebbe imposto il suo “stop”: niente patto coi grillini. Ora, comprendere e rispettare l’umore del proprio elettorato, è senz’altro cosa nobile – e se non nobile, quantomeno necessaria, talvolta – per la classe dirigente di un partito. Ma la sensazione, ultimamente, è che all’entità mistica e indefinita della “base” si ricorra sempre più, e sempre più arbitrariamente, per giustificare scelte che altrimenti non si avrebbe il coraggio di difendere. E così Di Maio ha l’alibi per cincischiare, temporeggiare, aprire e chiudere forni; e il Pd per evitare di decidere sul da farsi. Ammesso e non concesso che una chiacchierata in piazza, o una breve rassegna di tweet, valga davvero a mettersi in sintonia con la propria gente, viene comunque da pensare che a un leader politico sia richiesto soprattutto di decidere, e non di ratificare.

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