Matteo Renzi (foto LaPresse)

Così le dimissioni di Renzi diventano una sfida a Mattarella e ai grillini Pd

David Allegranti

Passo indietro del segretario e congresso. Consultazioni in mano all'ex premier che dice no ad accordi con Di Maio e Salvini

Roma. Le diciotto passate di lunedì 5 marzo, terzo piano del Nazareno: Matteo Renzi, fresco di sconfitta, ammette la disfatta lasciando la guida del Pd. Lo fa senza autocritiche, dice anzi che se l’Italia avesse votato nella finestra delle elezioni francesi o tedesche, cioè nel 2017 (citofonare Sergio Mattarella) l’agenda pubblica sarebbe stata diversa. Se la prende con gli avversari che insultano il Pd sui social e parla per interminabili minuti della sconfitta di Marco Minniti a Pesaro contro l’“impresentabile” del M5s Andrea Cecconi. “E’ ovvio che io lasci dopo questo risultato. Questo accadrà al termine della fase di insediamento del nuovo Parlamento e la formazione del nuovo governo”, dice Renzi, facendo infuriare il capogruppo uscente al Senato Luigi Zanda, barometro di ciò che si muove attorno a Paolo Gentiloni: “Annunciare le dimissioni e insieme rinviarne l’operatività è impossibile da spiegare. Quando Veltroni e Bersani si sono dimessi lo hanno fatto e basta”. Stavolta è diverso: Renzi ha scelto di bloccare sul nascere i tentativi di accordo fra la minoranza del Pd e il M5s, sfidando in un colpo solo Sergio Mattarella, l’establishment che ha sostenuto il governo (e Gentiloni), nonché, appunto, gli oppositori nel partito. Per questo, dice Renzi, serve “un congresso che a un certo punto permetta alla leadership di fare ciò per cui è stato eletto. Non un reggente scelto da un ‘caminetto’, ma un segretario scelto dalle primarie”. E’ un modo per prendere tempo e per evitare che l’eventuale reggente – ipotesi in campo in realtà già ieri mattina – si faccia latore di strane proposte d’alleanza. 

 

Magari proprio con i Cinque stelle. Per questo le ipotesi Graziano Delrio o Maurizio Martina poi sfumano nel pomeriggio, dopo estenuanti riunioni al Nazareno, al termine delle quali Renzi dice la sua: mi dimetto, ma resto finché il governo non è formato. “Il Pd è qui per dire no inciuci, no caminetti, no estremismi. Sono i tre no che ribadiamo forti e chiari”. Messaggio rivolto al Quirinale e alla minoranza del Pd, alle prese con certe tentazioni. Come ammette Massimo Cacciari a Radio 1 Rai “con le dimissioni di Renzi si può aprire una situazione che veda un governo tra Pd e M5s, ci può essere un esecutivo di questo, a patto che non vi sia Matteo Renzi come leader del partito”.

 

Lui però, uscito squassato dalle elezioni politiche dopo aver surfato sull’onda del quaranta per cento alle europee del 2014, non ci sta: “Chi ha la forza per governare, se ne è capace, lo faccia, noi faremo sempre il tifo per l’Italia, ma saremo responsabili nel saper dire dei sì e anche dei no. Faremo un’opposizione che non si attaccherà alle fake news, che non pedinerà gli avversari e non si piegherà alla cultura dell’odio…”. Un passaggio del suo intervento al Nazareno è anche per Paolo Gentiloni, che Renzi non nomina: “Siamo stati troppo tecnici”. Tradotto: il governo, nella persona del suo presidente del Consiglio, non ha fatto campagna elettorale per il Pd, ma solo per se stesso e la coalizione. D’altronde Gentiloni nelle settimane di campagna elettorale non è stato generoso con il suo segretario: “Non so se mi sono mai definito un renziano”, ha detto al Corriere della Sera poco prima del voto, aprendo la fase del “Renzi è una risorsa”. Altrove ha detto di considerare per l’appunto “una risorsa” la diversità fra lui e Renzi. Il ministro Carlo Calenda è d’accordo a metà con l’analisi del voto: “Condivido in pieno la linea su no governo con 5s, non commento percorso congressuale e timing dimissioni perché non iscritto al Pd, trovo fuori dal mondo l’idea che la responsabilità della sconfitta sia di Gentiloni, Mattarella (per voto 2017) e di una campagna troppo tecnica”.

 

La bussola del segretario dimissionario è tuttavia tracciata, almeno nella sua testa: niente accordi, il Pd è all’opposizione. Ma la minoranza non intende concedergli altro tempo. “Siamo alla ormai consueta elencazione di alibi e all’individuazione di responsabilità esterne. Da questo atteggiamento deriva la soluzione ambigua individuata, di dimissioni non dimissioni”, dice Andrea Orlando. “Noi siamo, tanto quanto Renzi, contro i caminetti ma anche contro i bunker. Siamo per il pluralismo. E siamo per ridare la parola subito ai nostri iscritti e ai nostri militanti. Avviamo subito, nella Direzione nazionale, un confronto aperto e trasparente”. Insomma, via al congresso, subito. “Abbiamo subìto una sconfitta pesante e la reazione non può che misurarsi con questa realtà”, aggiunge Gianni Cuperlo. “Chiedo la convocazione immediata della Direzione nazionale per valutare collegialmente quanto è accaduto. Renzi ha annunciato l’intenzione di dimettersi, ma solo a conclusione del percorso di insediamento del Parlamento e della formazione del nuovo governo. Non è così che si fa”. Insomma, “bisogna cambiare molto, non solo un segretario. Bisogna ricostruire una sinistra radicata nel paese. Facciamolo prima che sia tardi”. Annunciare le dimissioni, “e non darle, dopo avere subito una sconfitta di queste dimensioni”, dice Anna Finocchiaro, è “vistosamente in contrasto con il senso di responsabilità di lealtà e di chiarezza dovuti al partito ai suoi militanti ai suoi elettori”. Le dimissioni saranno formalizzate nella Direzione di lunedì prossimo. L’impressione è che nel frattempo Renzi voglia contarsi, per pesare non solo in Direzione ma anche in altre sedi. Magari alzerà il prezzo per puntare ad altri incarichi, come la presidenza del Senato? Per ora è fantapolitica. Certo è che anche i renziani della prima ora sono diventati molto diffidenti con l’ex sindaco di Firenze. Come Giorgio Gori, che esce sconfitto dalla sfida con Attilio Fontana. “Quando uno perde in modo così netto è giusto che ne tragga le conclusioni”, dice riferendosi a Renzi. “Già dopo la sconfitta al referendum aveva fatto un passo indietro: forse già allora doveva prendere un tempo più lungo prima di tornare legittimamente attraverso le primarie a guidare il partito, come è giusto che ora tocchi ad altri la responsabilità di ricostruire”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.