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In un mondo come questo ha ancora senso l'utopia del disarmo nucleare?

Adriano Sofri

È come quel modo di pacifismo che, esanime in pace, si rianima in guerra, e si mette in marcia. Osservazioni sui "tormenti di chi vuole la pace" espressi da Dacia Maraini

Dacia Maraini ha scritto l’11 agosto per il Corriere sui “tormenti di chi vuole la pace”. Vi indicava le ragioni pro e contro scelte opposte, in qualche caso con una sincera, tormentata esitazione, in qualche altro – grazie al cielo – con un dubbio solo retorico: “Un altro autocrate, di nazionalità tedesca, invadeva uno dietro l’altro stati sovrani… e nessuno interveniva, proprio per non suscitare una guerra mondiale. Ma quando ha preteso di invadere e sottomettere l’Inghilterra e la Russia… l’indignazione e la rabbia hanno avuto il sopravvento. Ed è scoppiata la guerra mondiale. Era meglio lasciarlo fare? E diventare sudditi del nazismo?”.

Ma al centro del suo intervento stava il ricordo della vera campagna che Alberto Moravia aveva promosso perché dell’arma atomica, e di conseguenza della guerra, l’umanità facesse un tabù, così come era riuscita a fare dell’incesto. Moravia aggiungeva il proprio impegno a quello di tanti, dal Galileo aggiornato di Brecht all’appello agli scienziati di Einstein e Russell del 1955 ora rilanciato, agli scritti di Guenther Anders, alla eccentrica conferenza “Pro e contro la bomba atomica” di Elsa Morante del 1965 (che aveva di mira il compito degli scrittori – di occuparsi dell’intera realtà, ignorando solo la “letteratura”). Anders spiegava il passaggio d’epoca di Hiroshima in cui il genere umano, reso vulnerabile a se stesso fino all’autodistruzione, aveva toccato l’impotenza. Moravia, che era prima di tutto romanziere, si sarebbe spinto a rintracciare un’impotenza intima, sessuale, dell’uomo dopo la Bomba, consapevole della fine del mondo. La bomba atomica gli sembrava “la malattia dell’occidente”, la sua tentazione di morte. Quell’Oppenheimer, ostile alla bomba all’idrogeno, aveva fomentato in cambio le atomiche “tattiche”. Nel 1983, intervistando per l’Espresso Georgy Arbatov, ucraino di Kherson, consigliere del segretario del Pcus Andropov, nel 1983, Moravia gli faceva la domanda cruciale di oggi: “Lei crede che nel prossimo futuro verrà varcata la soglia atomica con l’uso, in una guerra minore, di armi atomiche tattiche di piccolo calibro?” E Arbatov: “Io non credo che ci possa essere un conflitto nucleare limitato con uso di armi nucleari tattiche in quanto questo conflitto limitato sarebbe soltanto l’inizio di un conflitto più vasto”. Nell’atomica era culminata la hybris umana, e ora la sfida riguardava la capacità di fermarsi: non era mai successo, non è mai successo che una cosa diventata tecnicamente possibile e sperimentata non venisse mai più ripetuta.

Benché gli accordi sul disarmo abbiano ridotto la quantità degli armamenti atomici, la Russia detiene l’arsenale mondiale di gran lunga maggiore, cui contribuì decisamente il grazioso regalo dei magazzini atomici di Ucraina e Kazakistan. Con una simile dotazione, ha commesso il crimine di normalizzare e banalizzare l’eventualità del ricorso all’arma nucleare. Cioè il passo penultimo nella direzione opposta a quella della tabuizzazione – brutta parola, eh. D’altra parte sarebbe azzardato dire che l’aspirazione al tabù avesse fatto passi avanti, c’erano stati piuttosto momenti febbricitanti, come la crisi di Cuba 1962, e lunghi periodi di distrazione e anestesia, riempiti dalla proliferazione riuscita o tentata. (Sono ufficialmente nove gli stati in possesso dell’arma nucleare. Attorno a un solo scienziato, A.Q. Khan, girò la provvista nucleare di Pakistan, Libia, Iran e Corea del nord.). E insieme dall’invenzione di ordigni che, senza evocare lo spettro atomico, lo tallonavano: la “Madre di tutte le bombe” sganciata nel 2017 sulle montagne afghane occupate dall’Isis equivaleva ai due terzi della potenza di Hiroshima. I russi ne vantavano già una più potente, loro la chiamavano “Padre di tutte le bombe”. I nordcoreani annunciavano test con ordigni dieci volte quello di Hiroshima.

Ora è l’Ucraina a rimettere all’ordine del giorno il sogno del disarmo nucleare, e del bando alle guerre, alla guerra. C’è qualcosa di ovvio e insieme di paradossale nel superare la rimozione e riproporre la bella utopia proprio nel momento in cui viene spaventosamente contraddetta. E’ come quel modo di pacifismo che, esanime in pace, si rianima in guerra, e si mette in marcia. Il disarmo nucleare era da sempre un’utopia, ma concreta e capace di immaginare e di compiere passi. La domanda che la ripugnanza per la guerra propone a chiunque è se sia minimamente realistico, oltre che nobile, battersi per il tabù dell’armamento atomico e l’espulsione della guerra dall’orizzonte dell’umanità. Senza che avvenga, si dice giustamente, l’umanità è costantemente sull’orlo dell’autodistruzione. (Un orlo affollato di minacce concorrenti). La constatazione rende più ragionevole la speranza di una sua mutazione, la rivendicazione rinnovata del tabù?

Dacia Maraini ha una gran bella storia, d’infanzia e del resto. Nel 1945 il mondo aveva un paio di miliardi di abitanti umani. Nel 1982 Dacia e Moravia tornarono a visitare Hiroshima. Il mondo di allora aveva più o meno, direi, 4 miliardi e mezzo di abitanti umani. Oggi ne ha più di 8 miliardi. La Guerra fredda faceva credere alla possibilità di un controllo del mondo, di un compromesso fra due gendarmi. La sua fine illuse qualche screanzato mentale a credere in un gendarme solo. Il mondo “multipolare” implica altrettanti arsenali nucleari. (Solo il Sudafrica rinunciò al proprio armamento atomico, nel 1989, oltre a Ucraina Bielorussia e Kazakistan che lo regalarono alla Russia). E questa umanità proliferata e frastagliata ha imparato anche nelle sue caverne a buttare giù le Torri gemelle, a creare uno stato sui territori di più stati, a insediare marchi multinazionali più ricchi e potenti degli stati, ha inventato l’Intelligenza artificiale, ha banalizzato l’atomica, si è abituata alla fine del mondo, alle fini del mondo. Un po’ si vanta di esserne l’autrice, un po’ ne è spaventata, ma non abbastanza. Ecco: sotto un mondo così, è ancora ragionevole, oltre che poetico, confidare che la vecchia talpa del tabù della Bomba e della guerra possa scavare e vedere finalmente una luce del giorno?

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