storia

L'appello di Einstein a Roosevelt: la lettera che cambiò il mondo

Massimiano Bucchi

Un messaggio al presidente americano per prevenire la bomba di Hitler: il premio Nobel lo firmò quasi per caso. Fu l’inizio del Progetto Manhattan

Domenica 16 luglio 1939. Nella stessa estate in cui l’Europa sta definitivamente per incendiarsi, una Dodge coupé blu vaga ormai da due ore in una pacifica località di villeggiatura della costa orientale degli Stati Uniti, tra la Little e la Great Peconic Bay. L’auto è partita da New York la mattina presto. I due a bordo sono ormai scoraggiati, non riescono trovare l’abitazione che cercano. Sono ormai sul punto di rinunciare e tornare indietro. L’autista vede un bambino lungo la strada e prova a chiedere a lui: per caso sa dove trascorre le vacanze il celebre professore? Il bambino per fortuna lo sa, e li accompagna a una villetta alla fine di Old Cove Road, a Cutchogue, di proprietà di un certo dottor Moore.

I due sperduti automobilisti sono Leó Szilárd e un suo collega fisico, Eugene Wigner, entrambi di origine ungherese. E’ Eugene che guida, perché Leó non ha la patente. I due trovano Albert Einstein pacificamente seduto nel patio a chiacchierare. E’ lui che ha preso in affitto la casa del dottor Moore e trascorre qui la stagione estiva con la sorella Maja, la figliastra Margot e l’insostituibile assistente Helen Dukas. Einstein non sa nuotare ma ama andare sulla sua barca a vela, il Tinef, anche se a volte si mette nei guai e i giovani del posto devono intervenire per dargli una mano. Sta chiacchierando con David Rothman, il proprietario di un negozio in paese che vende un po’ di tutto. Un giorno in negozio è entrata Margot in cerca di un utensile per le proprie sculture. Rothman glielo regala, pregandola di porgere i migliori saluti al professore. Il giorno dopo entra in negozio Einstein in cerca di un paio di sandali. La taglia più grande rimasta è un modello da donna, che Einstein indossa per tutta l’estate. Rothman sta ascoltando al grammofono la Sinfonia n. 40 di Mozart e i due iniziano così a parlare di musica: trascorreranno così molte serate, con Einstein che spesso si mette al violino richiamando la curiosità dei vicini di casa. 

I due fisici, comunque, non sono arrivati fin lì per parlare di musica. Hanno invece un messaggio urgente per Einstein. Un messaggio che solo lui, premio Nobel e ormai celebrità mondiale, può far arrivare a chi di dovere. Tutti ormai stanno a sentire quando parla Einstein. Szilárd e Einstein si conoscono bene. Szilárd ha studiato a Berlino, e anni prima con Einstein ha perfino brevettato un innovativo modello di frigorifero, purtroppo mai entrato in commercio. Anche lui, come Einstein, ha lasciato la Germania nel 1933 quando Hitler ha preso il potere. Il 12 settembre 1933, in una piovosa mattina londinese, si è fermato pensoso al semaforo all’incrocio tra Southampton Row e Russell Square. Quella mattina, facendo colazione, ha letto sul Times il resoconto di una conferenza del grande fisico Ernest Rutherford. Passando in rassegna gli ultimi sviluppi della fisica atomica, pare che Rutherford abbia detto che sì, forse si potrebbe ricavare energia bombardando gli atomi, ma il procedimento sarebbe scadente e inefficiente, e chi ci sperasse parlerebbe di “chiaro di luna”. Un modo per dire: follia. Non è dato sapere se l’inglese approssimativo di Szilárd gli consenta di cogliere appieno il modo di dire, fatto sta che ha cominciato a rimuginare in modo ossessivo sulla questione. E allora gli torna in mente una lettura che lo aveva tanto impressionato qualche anno prima: un romanzo dello scrittore H. G. Wells, Il mondo liberato, in cui già nel 1914 si ipotizzava una guerra condotta con armi atomiche. L’impressione era stata tale che Szilárd aveva voluto incontrare personalmente Wells, acquistando persino i diritti di un altro suo scritto per l’edizione in Europa centrale. E se il grande Rutherford per una volta avesse torto? Il semaforo era passato sul verde. Nella testa di Szilárd, come un’auto veloce all’incrocio, era sfrecciata l’intuizione di come potrebbe funzionare una reazione nucleare a catena.

Einstein offre agli ospiti del tè freddo, poi ascolta in silenzio quello che Szilárd ha da dirgli. Da quell’idea scaturita a un semaforo londinese fino ai lavori di Joliot e Fermi, e la notizia che l’uranio non esce più dalle miniere cecoslovacche dopo che la Germania le ha occupate, eventi che sembrano concatenarsi proprio come nella reazione a catena immaginata da Szilárd. Alla fine Einstein commenta candido: non ci avevo proprio pensato. L’idea di Szilárd è che Einstein scriva alla Regina del Belgio, con cui è in confidenza dai tempi della sua visita in quel paese. Il Belgio controlla il Congo, ricco di riserve di uranio. Einstein osserva che sarebbe forse più efficace scrivere a un ministro belga con cui è in contatto. Wigner fa notare che non è molto ortodosso che tre rifugiati si rivolgano a un paese straniero e suggerisce di indirizzare la lettera all’ambasciatore belga e al dipartimento di stato americano. Seduto al tavolo di legno nel patio della casetta, Einstein detta una bozza della lettera in tedesco e Wigner la trascrive per tradurla poi in inglese e farla battere a macchina. I due salutano Einstein e si rimettono in viaggio verso New York. Nei giorni successivi, tuttavia, un amico mette in contatto Szilárd con l’economista e banchiere Alexander Sachs, vicepresidente della Lehman. Questi si dice disposto a consegnare personalmente la lettera nelle mani del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt. Il presidente ed Einstein si sono già incontrati quell’anno, soffrendo insieme il caldo di una già torrida domenica d’aprile, in attesa di aprire, con i rispettivi discorsi, l’Esposizione universale di New York, dedicata al progresso. Sachs dà anche alcuni suggerimenti per mettere a punto la versione finale della lettera.

Szilárd torna a trovare Einstein in villeggiatura due settimane dopo. Wigner è partito per la California, sicché stavolta al volante dell’auto c’è un altro fisico di origine ungherese, Edward Teller. “Sono entrato nella storia come autista di Szilárd”, dirà un giorno quest’ultimo. Il risultato è una lettera di quarantacinque righe, siglata da Einstein e datata 2 agosto (l’indirizzo del mittente contiene un refuso, Einstein ha scritto “Old Grove Road”, anziché “Old Cove Road”). La dattilografa dell’università che la trascrive su dettatura di Szilárd, mentre batte sulla tastiera di “bombe potenti” in una lettera indirizzata al presidente degli Stati Uniti e perdipiù firmata “Albert Einstein” scuote la testa: ora è definitivamente chiaro, il suo capo è proprio matto.

“Signore”, così inizia quella che è stata definita come la lettera più importante del ventesimo secolo, “alcuni recenti lavori di E. Fermi e L. Szilárd, che mi sono stati resi noti mediante un manoscritto, mi inducono a prevedere che l’elemento uranio possa essere tramutato in una nuova e importante fonte di energia nell’immediato futuro. Ritengo pertanto mio dovere sottoporre alla sua attenzione i fatti e le raccomandazioni seguenti (…). Questi nuovi fenomeni condurrebbero anche alla costruzione di nuove bombe ed è concepibile – sebbene assai meno certo – che bombe estremamente potenti di nuovo tipo possano essere così realizzate. Una singola bomba di questo tipo, trasportata con una nave e fatta esplodere in un porto, potrebbe benissimo distruggere l’intero porto insieme a parte del territorio circostante”.

La lettera sollecita il presidente “a stabilire un contatto permanente tra l’Amministrazione e il gruppo di fisici che lavorano sulle reazioni a catena in America” e lo mette in guardia sulla possibilità che la Germania stia facendo passi avanti nella stessa direzione

Passano oltre due mesi senza notizie da Sachs. Impossibile per lui fissare un appuntamento con il presidente mentre la guerra esplode in Europa. In realtà Sachs non vuole limitarsi a consegnare la lettera a Roosevelt, con il rischio che magari sia messa frettolosamente da parte. Vuole leggergliela di persona. I due si incontrano finalmente l’11 ottobre. “Alex, che combini?” lo accoglie il presidente. Sachs la prende alla larga, iniziando con una delle storie ironiche che amava raccontare. Stavolta è la storia di un giovane inventore americano che aveva scritto a Napoleone proponendogli una flotta di navi senza vele, in grado di attaccare il nemico inglese con qualsiasi condizione metereologica. Il giovane inventore fu liquidato frettolosamente da Napoleone: si trattava dell’ingegnere Robert Fulton, inventore della nave a vapore. Per tutta risposta, Roosevelt manda un assistente a prendere due bicchieri e un pregiato cognac Napoléon. Sachs riprende: oggi è venuto a parlare al presidente di qualcosa di dirompente e innovativo almeno quanto una nave a vapore in epoca napoleonica. Sachs in realtà non legge il testo di Einstein e Szilárd ma un proprio riassunto della lettera. “Ho capito che cosa combini, Alex”, sintetizza alla fine il presidente, “vuoi fare in modo che i nazisti non ci facciano saltare in aria”. Sachs annuisce. “Qui bisogna darsi da fare” conclude Roosevelt convocando un assistente. 

La risposta di Roosevelt a Einstein porta la data del 19 ottobre. Lo ringrazia: ha trovato le informazioni così importanti da convocare “una commissione per indagare approfonditamente le possibilità relative al suo suggerimento sull’elemento uranio. La commissione, coordinata dal direttore del Bureau of Standards, si riunisce per la prima volta il 21 ottobre. Ne fanno parte, tra gli altri, gli alti ufficiali Keith Adamson e Gilbert Hoover, oltre al trio Szilárd, Teller e Wigner. Adamson è piuttosto scettico, ma autorizza la creazione di un fondo di seimila dollari (circa centomila dollari oggi) che Fermi e Szilárd utilizzano perlopiù per procurarsi grafite. All’inizio le cose procedono piuttosto lentamente, tanto che un sempre più impaziente Szilárd torna a trovare Einstein, stavolta a Princeton e scrivono altre due lettere da dare a Sachs, sempre indirizzate a Roosevelt. Ma la vera svolta arriva solo alla fine del 1941, dopo l’attacco di Pearl Harbor. Il 19 gennaio 1942 Roosevelt autorizza quello che diverrà il “Progetto Manhattan”, uno sforzo colossale che arriva a coinvolgere 130.000 persone con un investimento di oltre 2 miliardi di dollari (32 miliardi di oggi). Einstein non partecipa ad alcuna riunione, né tantomeno è coinvolto nel progetto. In almeno un’occasione risponde a Roosevelt che sta poco bene, e comunque la sua presenza non è necessaria. I vertici militari e i servizi, però, non lo considerano del tutto affidabile, anche alla luce delle sue storiche posizioni pacifiste. “Vorrei poter parlare con lui di tutta la questione” confida un giorno al Direttore dell’Institute for Advanced Study di Princeton Vannevar Bush (architetto della politica della ricerca americana nonché Direttore del National Defense Research Committee) “ma qui a Washington la cosa è considerata proprio impossibile da chi ha studiato tutta la sua storia”. 

All’alba del 16 luglio 1945 il fisico Robert Oppenheimer vede il cielo del New Mexico illuminato a giorno dalla colossale esplosione del “gingillo” – così i fisici e tecnici preferiscono chiamare l’ordigno realizzato sotto la sua supervisione per evitare il termine bomba. Una bomba comparsa per la prima volta come scarabocchio sulla lavagna di Oppenheimer un giorno di febbraio 1939, dopo che Luis Alvarez, un giovane fisico, è arrivato da lui di corsa, schizzando via da una poltrona di barbiere con in mano una copia del San Francisco Chronicle: professore, guardi questo articolo sul congresso di Washington, non è incredibile quello che dicono Bohr e Fermi? 

Alle 8:15 del 6 agosto 1945, il pilota Paul Tibbets sgancia un altro ordigno che distrugge la città giapponese di Hiroshima, provocando centomila morti. Sono passati esattamente sei anni dalla lettera di Einstein al presidente Americano. Roosevelt è morto in aprile, Truman gli è subentrato e ha dato l’ordine di sganciare la bomba su una città giapponese. 

Anche quel giorno il fisico è in vacanza, ma stavolta sul lago Saranac, nello stato di New York. Apprende la notizia scendendo per il tè pomeridiano dalla sua assistente Helen Dukas, che l’aveva sentita alla radio. “Oy vey, ohimè”, il suo mesto commento. 

Nel luglio 1946, la rivista americana Time mette in copertina il “fungo” dell’esplosione atomica accanto al volto di Einstein – che pure non ha avuto alcun coinvolgimento diretto nel progetto dopo la corrispondenza con il presidente. Sull’immagine del fungo campeggia anche la sua celebre equazione sul rapporto tra massa ed energia. “Ho fatto un solo grande errore nella mia vita – quando ho firmato quella lettera al presidente Roosevelt”, dirà anni dopo Einstein al premio Nobel per la chimica e per la Pace Linus Pauling. E due anni dopo, quando una copertina di Newsweek lo definisce “l’uomo che diede inizio al tutto”, aggiunge: “Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a realizzare una bomba atomica non avrei mosso un dito”.

La bomba atomica sarebbe arrivata anche senza la lettera inviata nell’estate del 1939 da Einstein a Roosevelt? Difficile dirlo. Gli storici individuano un altro fattore chiave nei progressi del progetto atomico britannico, grazie al quale gli americani capirono che l’obiettivo era alla loro portata. Non c’è dubbio, tuttavia, che il prestigio e la visibilità di Einstein ebbero un ruolo importante, tanto che la sua lettera veniva spesso riprodotta e allegata ai documenti interni del progetto. Dopo tutto, come ha osservato lo storico della scienza Alex Wellerstein, “se Einstein diceva che realizzare la bomba era necessario, chi poteva contraddirlo?”. Ma viene da chiedersi anche come sarebbe cambiata la storia se in quel caldo pomeriggio di luglio i due smarriti viaggiatori si fossero arresi, o se non avessero incontrato il bambino che gli indicò la strada.