Dettaglio da “Il sogno” di Henri Rousseau, 1910 (Museum of Modern Art, New York) 

Eros e Thanatos nella giungla

Quiroga, lo scrittore arrivato dalla fine del mondo

Francesca D'Aloja

I primi traumi da bambino in Uruguay, la fuga da Parigi e Buenos Aires per coltivare un Eden nella foresta. I suoi racconti hanno fatto scuola, ma il destino lo ha perseguitato fino al tragico epilogo

Nel 1903, lo scrittore argentino Leopoldo Lugones organizza, per conto del ministero della Pubblica Istruzione, una spedizione nel selvaggio territorio di Misiones, nel nord dell’Argentina. Deve documentare lo stato di conservazione delle missioni di San Ignacio, fondate nel diciassettesimo secolo dai gesuiti e sepolte nella foresta pluviale da quando il re Carlo II di Spagna aveva decretato l’espulsione dell’ordine religioso. L’impresa è niente affatto semplice, si tratta di risalire il fiume Paranà, sbarcare a Posadas e proseguire a dorso di mulo facendosi largo a colpi di machete fino alle spettacolari cascate dell’Iguazú (ricordate il film Mission con Robert De Niro e Jeremy Irons..? lo scenario è quello).

Lugones convoca uomini adatti all’impresa, e fra loro include un suo caro amico, Horacio Quiroga, fotografo dilettante, destinato a diventare uno dei più importanti scrittori ispanoamericani di racconti, un cuentista venerato da Cortázar e Bolaño (ma è riduttivo classificarlo nel pantheon dei suoi compatrioti, poiché la sua grandezza supera epoche e latitudini). A lui Lugones affida il compito di documentare i luoghi con il suo obiettivo.


Dal territorio di Misiones, nel nord dell’Argentina, inizia la sua leggenda. Ci si arriva a colpi di machete fino alle cascate dell’Iguazú


E’ questo l’incipit di una storia avventurosa e molto triste, con un protagonista unico, Quiroga, la cui vita è di gran lunga più terrificante dei racconti horror per i quali verrà ricordato. Lasciamo dunque da parte Leopoldo Lugones, che in questa cronaca ricoprirà suo malgrado il ruolo di Caronte, e concentriamoci su Horacio Quiroga, poiché è proprio da qui, da Misiones, che avrà inizio la sua leggenda.

 

E’ d’obbligo una premessa personale: Iguazú, e dunque Misiones, è uno dei pochi remoti posti al mondo che ho visitato ben tre volte, tante quanti i confini che ne delimitano il perimetro. Le cascate dell’Iguazú, caso forse unico, sono infatti spartite tra tre diversi paesi: Argentina, Brasile e Paraguay. In epoche e circostanze diverse mi sono trovata al cospetto di uno degli spettacoli più impressionanti della Natura (“un paesaggio ruggente d’acqua, uragano e forze scatenate” come scrisse il nostro) che ho ammirato da ogni possibile prospettiva, eppure mi piacerebbe tornarci ancora, stavolta per vedere ciò di cui a quei tempi ignoravo l’esistenza, ovvero la casa che Quiroga costruì con le sue mani, tuttora visitabile a San Ignacio.

 

La Selva tropicale è per Quiroga un’epifania: nella poetica modernista, quell’istante rivelatorio, scaturito da un’esperienza accidentale e portatore di una verità profonda. O forse è semplicemente il coronamento di un destino già segnato nel suo nome di battesimo: Horacio Silvestre… Una volta rientrato a Buenos Aires, Horacio non pensa ad altro, quel luogo aspro e inospitale lo riguarda intimamente, non sa ancora perché ma sa che lì vuol tornare, lì vuole vivere: “Per Lugones quello era il passato, per me, quella natura che ricopriva le rovine era il presente eterno, la vita infinita e sempre rinnovata che si impone sulle ambizioni umane”.
Il richiamo della foresta corrisponde all’aspirazione verso una vita estrema che possa illuminare la mente di un uomo, ma a spingere Quiroga nel cuore della selva oscura è l’illusoria persuasione che l’abbandono della civiltà dispensatrice di dolori e delusioni lo proteggerà dal male.


“Per me, quella natura che ricopriva le rovine era il presente eterno, la vita infinita e sempre rinnovata che si impone sulle ambizioni umane”


Un male, o più precisamente una maledizione, che lo perseguita sin da bambino e lo accompagnerà, inesorabilmente, fino alla fine. Ricominciamo perciò dall’inizio. Horacio ha pochi mesi di vita quando suo padre muore a seguito di un colpo partito accidentalmente dal suo fucile durante una partita di caccia. Pochi anni dopo la madre si risposa con un uomo che farà da padre a Horacio e gli procurerà, a soli diciassette anni, il primo (e forse originario di tutti gli altri) trauma. Quasi paralizzato e reso muto da un’emorragia cerebrale, l’uomo decide che non passerà il tempo che gli resta in quelle condizioni: non avendo più l’uso delle mani, riesce a puntare un fucile in direzione del volto aiutandosi con i piedi, e nell’istante esatto in cui Horacio entra nella sua stanza, si fa saltare il cervello premendo il grilletto con l’alluce.

Prendiamoci una pausa e respiriamo, perché questo era solo l’inizio.

Arriva il tempo dell’amore (Eros e Thanatos: saranno questi i temi centrali dell’opera e della vita di Quiroga), Horacio si innamora, ma la ragazza, ebrea, è costretta dai genitori a interrompere la relazione a causa della differente fede religiosa. Horacio affogherà le sue pene d’amore nella Senna (e in un bellissimo racconto: Una estación de amor). Nel 1900, in occasione dell’Esposizione universale, si imbarca su una nave per raggiungere Parigi, attratto, come molti intellettuali ispanoamericani della sua epoca, dalla cultura europea. Viaggia in prima classe e sbarca in città indossando un frac. Ma i circoli letterari parigini fanno fatica ad accettare quel ventiduenne allampanato e taciturno che proviene dal Nuovo Mondo, e a lui riesce difficile adattarsi alla bohème parigina. “Un’esperienza orribile”, scriverà in una delle sue memorabili lettere. Nato in una famiglia benestante uruguaiana, ma rimasto ben presto al verde, Quiroga si ritroverà a chiedere l’elemosina agli angoli dei boulevard. Nasce lì la decisione di farsi crescere una barba da asceta indu, che sfoggerà fino al resto dei suoi giorni. Dopo soli quattro mesi di permanenza rientra, amareggiato, a Montevideo. Senza soldi, senza valigia e senza collo della camicia. I deludenti mesi parigini saranno raccontati in un diario, Diario de viaje a Paris, una delle sue prime pubblicazioni insieme a una raccolta di poesie. La letteratura riempie le sue giornate: scrive, legge avidamente Poe, Maupassant, Kipling, Cechov (i suoi “maestri” come scriverà nel primo dei dieci comandamenti del suo celebre Decálogo del perfecto cuentista: “Credi in un maestro come in Dio stesso”) e frequenta gli intellettuali della sua città con i quali fonda un cenacolo, Il concistoro della Gaia Scienza, una sorta di laboratorio sperimentale teso a promuovere gli obiettivi modernisti de La generación del ‘900. E’ un periodo felice e ricco di iniziative che si interromperà, bruscamente, a causa di una nuova e assurda tragedia. Federico Ferrando, co-fondatore del cenacolo e suo più caro amico, subisce una stroncatura da parte di un critico, e come consuetudine dell’epoca lo sfida a duello per difendere il proprio onore. Horacio è preoccupato, si offre come padrino per restare accanto all’amico, e gli Dèi, ancora una volta, lo trafiggono. Mentre sta pulendo l’arma destinata a riscattare la reputazione del sodale, parte un colpo e Federico muore all’istante per mano dell’amico invece che dell’avversario. Horacio sarà arrestato e rilasciato subito dopo grazie alle testimonianze dei presenti, che confermeranno la triste casualità dell’accaduto.

Il senso di colpa decreta la fine del club letterario e l’addio all’Uruguay.

Quiroga si trasferisce a Buenos Aires dove si guadagna da vivere insegnando letteratura al Liceo britannico. Gira in bicicletta, si diletta nella fotografia e intanto affina la tecnica del racconto breve, genere nel quale primeggia. Nella sua produzione figurano anche due romanzi, un’opera teatrale e una sceneggiatura (il cinema è stata una sua grande passione, espressa anche come critico cinematografico per quotidiani e riviste) ma saranno i racconti a dargli la gloria. E siamo arrivati al 1903, anno della spedizione amazzonica. L’anno della svolta. Come abbiamo già detto, da quel momento in poi le energie di Quiroga si concentrano nel progetto di una nuova vita, che si concretizzerà, tre anni dopo, con l’acquisto di 185 ettari nell’alto Paranà, reso possibile dagli incentivi promossi dal governo per lo sfruttamento di terreni ancora vergini. Horacio si dedicherà anima e corpo (è il caso di dirlo) alla costruzione di un bungalow che sancisce il definitivo distacco dalla società. Un distacco che non si apparenta tuttavia a una vocazione eremitica: il suo è piuttosto un utopistico ritorno alle origini del creato, una riconquista del Paradiso terrestre. Ma senza Eva un Eden non può esistere… 


Suo padre muore in una battuta di caccia, il patrigno si suicida di fronte a lui, lo stesso Horacio spara al suo migliore amico per accidente e lo uccide



Si chiama Ana Maria, ha diciassette anni, è una sua allieva. Troppo giovane per intuire il peso di una scelta esistenziale così estrema, si lascia sedurre dall’entusiasmo del suo professore, ma anche dalla sua intelligenza, dalla sua maturità e soprattutto dal suo amore. Così lo sposa e lo segue nella giungla. Un anno dopo nasce Eglé, partorita nel bungalow con l’aiuto di Horacio. Dario, il figlio maschio, arriverà l’anno successivo. Il sogno si sta avverando, la Natura ostile e selvaggia sembra davvero proteggere Horacio e la sua famiglia dalle avversità. La vita è dura, è difficile adattarsi, ma Quiroga non si risparmia per mantenere viva l’illusione: si improvvisa coltivatore di mate, poi allevatore, impara a conciare la pelle, studia la botanica, allestisce un laboratorio dove costruisce canoe per navigare il Paranà e intanto scrive forsennatamente. E’ di questo periodo la raccolta Cuentos de amor, de locura y de muerte cui seguiranno i Cuentos de la selva che lo renderanno celebre. Si guadagna da vivere accettando l’incarico di giudice di pace, un lavoro d’ufficio che svolge senza alcun impegno ma che gli ispirerà uno dei suoi migliori racconti, Il tetto d’incenso: “Durante il primo anno di lavoro come direttore dell’Anagrafe, tutta San Ignacio aveva protestato contro Orgaz poiché questi, in spregio alle disposizioni in vigore, aveva aperto l’ufficio a mezza lega dal paese. Lassù, nel bungalow, in una stanzetta col pavimento di terra battuta, abbuiata dal porticato e da un grande mandarino che quasi bloccava l’entrata, i clienti aspettavano immancabilmente dieci minuti perché Orgaz non c’era, o c’era ma aveva le mani piene di catrame”.
Come Orgaz, il protagonista del racconto, anche Quiroga preferisce i lavori manuali alla burocrazia: con le mani sporche di grasso, registra nascite e morti su foglietti di carta che conserva in una latta per biscotti e appena gli è possibile torna alle sue mansioni. Ai numerosi impegni si aggiunge l’educazione dei figli che il padre impartisce come un’ennesima missione da compiere. Sin da piccolissimi li forgia alla scuola della sopravvivenza sottoponendoli a prove ardue e rischiose: li lascia soli nella foresta, se li porta sulle montagne o lungo il fiume attraverso percorsi insidiosi, li abitua alla convivenza con gli animali selvatici. Eglé e Dario crescono come piccoli Mowgli del Libro della giungla. Ana Maria non approva i metodi del marito, ma non è soltanto l’educazione dei figli a renderla insofferente: quella vita primitiva non fa per lei, non riesce ad adattarsi, non ha amici, si sente sola, terribilmente sola.

Il Paradiso terrestre non esiste

Non è senza ragione che un giorno Quiroga definirà quel luogo tanto agognato “mi paraíso infernal”, il mio paradiso infernale. C’è un profumo di zolfo da cui non riesce a liberarsi, un sentore di morte che incombe sui suoi giorni e le sue pagine. Nei racconti gotici, che Quiroga scrive in uno stile asciutto e modernissimo, i protagonisti sono sempre vittime di un destino avverso o inconsapevoli oggetti di paurosi sortilegi, come nello spaventoso Il cuscino di piume che ricorda le atmosfere evocate da Poe. Uno dei miei preferiti si intitola El hombre muerto, l’uomo morto. La cronaca di un’agonia raccontata senza alcun pathos: “Mentre abbassava il filo spinato e ci passava sopra, scivolò col piede sinistro su un pezzo di corteccia che si era staccata dal palo e il machete gli sfuggì di mano. Cadendo l’uomo ebbe l’impressione estremamente vaga di non vedere il machete di piatto per terra”. Non lo vede perché la lama del machete è finita dentro il suo corpo, ma l’uomo ci mette un po’ a capirlo, finché: “…acquisì la fredda, matematica e inesorabile certezza di essere giunto al termine della propria esistenza”, e così continua: “Non sono passati nemmeno due secondi: il sole è esattamente alla stessa altezza; le ombre non sono avanzate di un millimetro”. L’uomo sta morendo e la natura intorno a lui è indifferente. Indifferente come fu lo stesso Quiroga di fronte al patimento della giovane moglie. Forse per incapacità di affrontare il fallimento del suo ideale di vita romantico, non si rende conto, come l’uomo del racconto, di ritrovarsi al cospetto della morte. In un pomeriggio uguale a tanti altri Ana Maria ingerisce una quantità letale di dicloruro di mercurio, il liquido utilizzato dal marito per sviluppare le sue fotografie. L’agonia reale sarà molto più spietata di quella immaginata nel racconto: Ana Maria morirà dopo otto giorni di sofferenza lasciando Horacio solo, con due bambini.
Della prima moglie non resterà traccia tranne che in un romanzo a lei ispirato, Historia de un amor turbio (Storia di un amore torbido). Dopo aver bruciato vestiti, fotografie e oggetti che la riguardano, Quiroga abbandona Misiones e si ritira a Buenos Aires, insieme ai figli, in un seminterrato umido e fatiscente. Non scriverà più nulla per un anno intero, distrutto dalla depressione. Sfogherà la sua rabbia e il suo dolore nella folle costruzione di una barca che collauda sul fiume Tigre. Ancora una volta Quiroga si affida al corpo, al proprio corpo asciutto e potente, capace di ideare, costruire e smontare manufatti: le sole cose su cui può esercitare un controllo.  Nel 1915 riprende la scrittura e accetta un lavoro di segretario al consolato uruguaiano. Collabora con diverse riviste, scrive la pièce teatrale Las sacrificadas. Il successo dei Racconti della selva, scritti per i figli Eglé e Dario, consacra la sua fama di “Kipling americano” e conquista un pubblico di ragazzi che si appassionano alle avventure di animali selvatici che parlano in prima persona come gli esseri umani. Il regno animale come prototipo di armonia: “Generazioni di animali si succedono una dopo l’altra in una stabile situazione di pace, poiché nonostante le lotte e gli spargimenti di sangue, c’è qualcosa che regge l’equilibrio permanente della selva, e quel qualcosa è la libertà. Se le specie sono libere, nella selva regna la pace anche con gli spargimenti di sangue. E’ nella ‘vita integrale’ della selva che questa comunione terrestre prende verità. Impossibile altrove”. Anaconda, uno dei racconti più celebrati, sarà anche il nome di un’associazione culturale fondata da Quiroga, ritrovo degli intellettuali di Buenos Aires. Fra loro, la poetessa Alfonsina Storni, legata intensamente allo scrittore. Potrebbe essere la sua anima gemella, la sola con cui stabilire un rapporto paritario, ma Alfonsina, più lungimirante delle altre, rifiuta di seguirlo nella foresta pluviale, “el paraíso infernal”. Pur stabilitosi a Buenos Aires, Quiroga non può fare a meno di tornare a San Ignacio. Appena può, fugge lì per poi far ritorno in città, talvolta solcando il Paranà con una delle sue barche, in compagnia di animaletti selvatici che alleva nel giardino della sua nuova casa di Buenos Aires. Dopo quindici anni di vita urbana “più o meno sopportata”, scrive, “l’uomo fa ritorno alla selva”. Nel 1932 decide di stabilirsi nuovamente a San Ignacio: si è innamorato. Ancora una volta di una ragazza. E’ un’amica della figlia Eglé, si chiama Maria Elena, ha diciannove anni ed è bellissima. Pur anelando all’isolamento, Quiroga teme la solitudine e più di ogni altra cosa vuole amare ed essere amato: “L’amore per la natura mi sostiene ma non mi basta. Sono sentimentale e ho più bisogno di affetto che di cibo”.


Il suo distacco non si apparenta a una vocazione eremitica: è un utopistico ritorno alle origini del creato, la riconquista del Paradiso terrestre



Corroborato dalla passione, ricambiata, per Maria Elena, Horacio ritrova tutto ciò che lo fa sentire vivo. Si lancia in imprese spericolate, tutte destinate al fallimento: progetta e costruisce un macchinario per uccidere le formiche, un meccanismo per la distillazione delle arance, insiste nell’allevamento di animali e intanto scorrazza nella foresta in sella alla sua inseparabile motocicletta, vestito come un dandy. In questa ostinazione a confrontarsi con le difficoltà di una vita selvaggia si percepisce un afflato sacrificale, un sentimento di espiazione che ricorda il personaggio interpretato da Robert De Niro in Mission. Ma anche l’utopia di una vita alternativa tenacemente desiderata nonostante i reiterati fracasos, i fallimenti inaccettabili di un sogno irrealizzabile. Se per Kipling la giungla era un topos letterario, per Quiroga è la vita, che egli stesso tramuta in letteratura. Tutto ciò che lo circonda diviene materiale letterario, come gli incontri con i “relitti umani”, personaggi borderline partiti dall’Europa e arenati nella foresta, che verranno ricordati ne Gli esiliati: “Sono nati, come le palle da biliardo, con l’effetto. Toccano normalmente la sponda ma poi prendono le direzioni più inaspettate: Così Juan Brown, che era andato a guardare le rovine per qualche ora soltanto e vi rimase venticinque anni; e il dottor Else, al quale il distillato di arancia fece scambiare la figlia per un ratto; o Von Houten, soprannominato ‘quel che resta di Von Houten’ avendo perduto tre dita e un orecchio in un’esplosione…”. Ma ancora una volta l’illusione si infrange: il rapporto passionale che unisce Horacio alla seconda moglie non supera la prova della foresta. La nascita di una bambina rafforza in Maria Elena il desiderio di andarsene, mentre la salute di Quiroga subisce un duro colpo. Il medico della zona riscontra seri problemi alla prostata che richiederebbero un ricovero in una struttura adeguata, ma Quiroga rifiuta di trasferirsi in città e Maria Elena, esasperata, lo abbandona e fugge a Buenos Aires insieme alla bambina. “Solo como un gato estoy”. Solo come un gatto, e seriamente ammalato. Quando le condizioni di salute precipitano si decide finalmente ad abbandonare la selva per farsi ricoverare in una clinica di Buenos Aires. Sono le ultime battute prima di giungere a un finale memorabile, degno di un grande racconto. E’ la solita vecchia regola: la realtà supera di gran lunga la fantasia, e quand’anche una simile biografia fosse stata frutto di un’invenzione sono certa che lo stesso creatore non si sarebbe concesso tali eccessi.
Durante i cinque mesi di permanenza in clinica, Quiroga, ormai ridotto a un fantasma, esce ogni tanto dalla sua stanza trascinandosi lungo i corridoi del nosocomio. Un giorno sente provenire dei lamenti in fondo a una scala. Versi gutturali di animale ferito. Incuriosito, si spinge dinnanzi alla soglia di una stanza isolata nel seminterrato: all’interno intravede una figura il cui volto è nascosto da una federa sudicia. Gli occhi pieni di lacrime sbucano da due fori ricavati nel tessuto. Il suo nome è Vicente Battistessa, ma tutti lo chiamano “Il mostro”. Come il noto Joseph Merrick immortalato da David Lynch in Elephant man, l’uomo è affetto dalla sindrome di Proteo che ne deforma i lineamenti. Mosso a compassione, Quiroga chiede che venga trasferito nella sua stanza: sarà la sola persona a considerarlo come un essere umano (“Anch’io sono un uomo…!”, ricordate?). Vicente si installa nella stanza di Horacio e durante la notte ascolterà rapito i racconti di Maupassant, Poe, Cechov e dello stesso Quiroga letti a voce alta dal suo illustre vicino di stanza. Fra i due reietti nascerà un intenso rapporto di fratellanza fino al giorno in cui Horacio, saputo di essere affetto da un tumore incurabile, chiede all’amico deforme un ultimo favore. Si infila il solo abito elegante che gli resta e si prepara a uscire, malgrado le poche forze di cui dispone: “Torno presto, non dire niente a nessuno.” Al suo rientro, Quiroga non si toglie l’abito e si allunga sul letto, poi chiede a Vicente di avvicinarsi e di stringergli la mano, sfila dalla tasca una boccetta e inghiotte il cianuro acquistato durante la sua passeggiata di addio alla vita. Elephant Man lo ha aiutato a morire.


Scala le cascate dell’Iguazú come Robert De Niro in “Mission”. Cresce i figli come piccoli Mowgli. La sua Eva è Ana Maria, una giovane allieva


Non è finita. La maledizione non si arresta con la morte del protagonista.

Pochi anni dopo, con la stessa deliberata tragica intenzione, moriranno i tre figli di Quiroga, prima Eglé poi Dario e infine Pitoqua, l’ultima nata. Si uccideranno anche gli amici Alfonsina Storni e Alberto Lugones, l’uomo che gli aveva fatto conoscere “el paraíso infernal”.

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