COMUNICAZIONE
E la balena cantò a teatro. Un'avventura all'Opera House di Sydney
Preparare la messa in scena di “I racconti di Hoffmann” di Offenbach in tempi di Covid. Le distanze “cetacee” che abbiamo imparato a superare
Uno dei più grandi desideri che avevo era quello di vedere le balene, il mio animale preferito. Da ragazzo avevo letto in un libro che, tenendo le braccia larghe a cerchio davanti al petto, avrei disegnato la circonferenza dell’aorta di una balena. Proporzioni incredibili, dimensioni sfacciate, tonnellate sospese fluttuanti nell’acqua, leggere e danzanti. Mammiferi e non pesci, senza denti eppure mostruosi, assurti a simbolo di feroci creature demoniche nei bestiari e nelle carte nautiche del Medioevo, in grado di affondare navi o inghiottire poveri cristi come Giona, poi risputato a riva per ordine divino. Ma in realtà esseri docili e innocui. E con una caratteristica molto emozionante: cantano. Hanno una voce come ce l’abbiamo noi, anche se il loro canto è quanto di più misterioso si possa immaginare. Come fanno a cantare sott’acqua? Hanno le corde vocali? Hanno una laringe? Se devono respirare per produrre i loro suoni come possono cantare stando sott’acqua? Non lo so, non sono un cetologo. Ma ne sono affascinato. In questo mese ho realizzato quel sogno di ragazzo e ho potuto vedere le balene nuotare al largo della baia di Sydney, in un pomeriggio invernale che assomigliava in verità a una bella giornata di aprile da noi. Sulla baia di Sydney, proprio a cinque minuti dalle balene, si affaccia un’altra enorme e affascinante creatura all’interno della quale si canta. E’ la Sydney Opera House, il famoso teatro costruito come una grande nave con vele ricoperte di piccole piastrelle bianche, spalancate per salpare sul mare da cui si trova circondata. Un’architettura futuristica, realizzata a partire dal 1957 secondo il progetto dell’allora sconosciuto architetto danese Jørn Utzon e inaugurata nel 1973, poi divenuta patrimonio mondiale dell’umanità (se ci fosse qualche giovane lettore, è il teatro che si vede anche alla fine del film di animazione “Alla ricerca di Nemo”). In questo mese ho lavorato qui per rappresentare un’opera lirica francese, “I racconti di Hoffmann” di Jacques Offenbach.
Se qualcuno pensa di non conoscere Offenbach, in realtà si sbaglia. Tutti conosciamo almeno un brano di una sua opera, anche se magari non sappiamo dire cos’è. Si tratta del “Can-can”: quella musica che associamo alle ballerine del Moulin Rouge fu in realtà scritta da Offenbach per raccontare i diavoli che ballano all’inferno nella sua opera “Orfeo all’inferno”, una parodia del mito di Orfeo e Euridice con un tono satirico, scandaloso e dissacrante. Nella versione di Offenbach, Euridice, stanca di una relazione di coppia deteriorata, non ha nessuna intenzione di abbandonare l’inferno dove invece resta più che volentieri, ubriaca e giubilante, a ballare con i diavoli sulle note di quel famoso galop. Qui a Sydney anche “I racconti di Hoffmann” che sto mettendo in scena hanno un tono frizzante e fantasioso, che esce dagli usuali schemi narrativi del classico melodramma, perché sono un’iperbole surreale di musica sublime, a tratti scanzonata e chiassosa, che asseconda una storia fatta a puntate, suddivisa secondo gli amori veri o presunti di un vecchio poeta ubriaco che passa i suoi giorni in una locanda, attorniato dai suoi amici reali e immaginari, nati dal vino in cui intinge la penna della sua poesia e accompagnato da una Musa ispiratrice in grado di dar voce alla sua natura.
La cultura occidentale, la centenaria opera lirica europea, trasportata nel bel mezzo del Pacifico, in un teatro che ha solo 50 anni di vita… Senza essere irriverenti, capovolgendo il paragone, può sembrare come voler fondare una squadra di cricket in Italia. Ma in realtà questo teatro, che è un vero e proprio “performing arts centre”, rappresenta un business eccezionale. L’Opera House di Sydney è la destinazione turistica numero uno del paese e il centro per le arti dello spettacolo più frequentato, che accoglie più di 10,9 milioni di visitatori all’anno. Deloitte ha stimato in 6,2 miliardi di dollari il valore culturale e iconico totale della Sydney Opera House per l’Australia. E pensare che il palcoscenico di questo teatro in realtà è minuscolo! Sembra impossibile da credere, ma è proprio così. Le sue dimensioni sono quelle di un teatro di provincia, ed è proprio l’ultima cosa che un regista si aspetta di trovare all’interno di un’architettura simile. Questo comunque non impedisce affatto al teatro di avere una fitta programmazione che alterna opera e musical. Sì, perché mentre sto allestendo l’opera di Hoffenbach ci sono allo stesso tempo le prove per “Miss Saigon”, un musical di Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil, ispirato a “Madama Butterfly” di Puccini. “Miss Saigon” è un autentico blockbuster mondiale e mi piace che in questo teatro la programmazione sia in grado di diversificare la sua offerta. “Madama Butterfly” e “Miss Saigon” è un confronto utile per capire come sia cambiato il mondo del teatro musicale, anche se in Italia “Miss Saigon” non è mai stato rappresentato.
Nell’estate del 2021 ero venuto qui per iniziare le prove di questo spettacolo che era stato programmato a Londra, ma poi posticipato per il Covid e quindi il debutto era stato spostato a Sydney, in quanto coproduttore. Al mio arrivo all’aeroporto fui invitato a salire su un autobus scortato dai militari e accompagnato in un Covid Hotel per scontare due settimane di quarantena. Non mi dettero nemmeno la chiave della stanza perché “You are not supposed to leave the room”, mi disse la donna al check-in. Risultato? Chiuso in 15 metri quadri con una telefonata al giorno da parte di un’infermiera per assicurarsi che tutto stesse andando bene e non mi fossi buttato dalla finestra. Due volte al giorno il campanello suonava e, sulla soglia della porta, trovavo una busta di carta con dentro il mio pasto australiano. Per regolamento, dovevo attendere almeno 30 secondi prima di aprire la porta per evitare contatti. E non sto esagerando: regole ferree. Un giorno in cui aprii la porta per prendere il mio sacchetto, mi trovai davanti all’inquilino dalla porta accanto col naso all’insù di fronte ad un tizio che gli stava effettuando il tampone e che vedendomi mi gridò inviperito “Shut the door!!!”. Sono pazzi questi, pensai… Dopo due settimane di prove, gestite nel frattempo alla meno peggio su Zoom, ero pronto per uscire di prigione. Un braccialetto di carta incollato attorno al polso, simile a quelli che ti danno ai congressi, testimoniava la mia stretta osservanza della quarantena e, finalmente, sarei potuto andare di persona in teatro a lavorare. Ma la sera prima ricevetti la telefonata del direttore del teatro che mi dava un’improvvisa notizia: il ministro della Salute ritiene che i casi siano aumentati e la situazione deve essere messa sotto controllo in modo più rigido. Cioè? II teatro deve chiudere. E quindi? Tu torni a casa. Morale: venti ore di aereo-due settimane di Covid hotel-venti ore di aereo. Sydney non l’avevo vista se non da dietro un vetro: quello del pullman, quello dell’hotel, quello del taxi.
Questa storia, che sarebbe ricca di moltissimi altri aneddoti divertenti, mi porta sempre a riflettere sui cambiamenti che la pandemia ha portato nel nostro modo di vivere e di intendere la comunicazione. La pandemia ha semplicemente accelerato dei processi già in atto, ma che stavano procedendo con un ritmo lento, perché non spinti da necessità impellenti. Zoom esisteva già prima della pandemia, ma chi lo usava? Oggi invece mia figlia si laurea alla Statale di Milano facendo la discussione della tesi online, una cosa che mi lascia ancora interdetto, ma è solamente il segno della mia incapacità di adattarmi ai cambiamenti (anche se poi la proclamazione è in presenza, quindi vuol dire che, per fortuna, siamo ancora convinti che le emozioni funzionino solo se sono condivise e non si possa festeggiare online). Che senso ha il concetto di partecipazione all’interno di una società virtuale? Perché l’esame di laurea si può fare online, ma la consegna del diploma si fa in presenza? Perché il teatro realizzato in streaming è una nuova e degnissima forma di recitazione filmata? Espressioni come “vado a teatro… vado al cinema” esisteranno ancora nel futuro? Il solo senso del teatro è quello di avvicinare, appartenere, condividere. Sta cambiando, come sempre, e noi siamo felici di scoprirne e tracciarne le nuove direzioni, ma ciò che non cambia sono i nostri bisogni. Dopo la pandemia le sale cinematografiche hanno subito una perdita di pubblico: paradossalmente funzionano di più i piccoli cinema d’essai, quelli che magari prima stentavano a reggere il confronto con i multisala. Invece i multisala si svuotano.
Questo mi fa pensare che laddove ci siano radici, l’albero regge la tempesta. E le radici non possono che essere umane, di condivisone, di storia. Di identità. Il teatro è un luogo che testimonia un’identità. Come una piazza. Come una chiesa. Come uno stadio. Chiedete ai tifosi di rinunciare alla presenza allo stadio e di seguire le partite a casa, sul divano: come minimo vi righeranno la carrozzeria dell’auto, se l’ala dura della curva non avrà già provveduto a incendiarvela. Senza condivisione non c’è partecipazione. Oggi le pubblicità vendono il concetto che si possa partecipare restando relegati, a distanza: è una bugia. A distanza si possono fare sicuramente un sacco di cose utili e comode, ma le emozioni sono un’altra cosa. Coltivare l’identità non significa chiudersi in un’aura di autocelebrazione. Significa conoscere e dare valore alla propria storia per poterla rendere in grado di sostenere le contraddizioni di ogni presente. Come fanno le balene: cantano in “balenese” per comunicare la propria cultura, per dare informazioni sulle rotte da seguire, sui pericoli da evitare, sulle risorse di cibo, sulle minacce che il percorso può presentare lungo la via. Simili ai canti dei cetacei, che proiettano le loro voci attraverso file di note acute in grado di attraversare metri cubi d’acqua per migliaia di chilometri nel fondo dei mari, in un richiamo ancestrale e rituale, così i nostri canti rimbalzati dai satelliti attraversano oggi l’intero pianeta. Una Terra divenuta minuscola, come una palla da biliardo.
I nostri canti non smettono di testimoniare la necessità di un confronto, di un’appartenenza, di una condivisione. Ossia i valori umani, al di là di ogni confine geografico o linguistico: valori che costituiscono il senso della dignità. La stessa dignità di considerazione a cui ambiscono le generazioni più povere e a cui oggi è così complicato riuscire a trovare un’adeguata risposta. Cambiano le formule, ma non i bisogni. E se qualcuno è insicuro di riuscire a comprendere quali siano le rotte da seguire, visto che non esiste ancora un’applicazione in grado di tradurre dal “balenese” all’italiano, non scoraggiamoci. Ci basterà tenere a mente la storia di un piccolo pesce pagliaccio che, per ritrovare il proprio figlio smarrito nell’oceano, chiede aiuto a una balena e cerca di parlare il “balenese”, col risultato di essere prima inghiottito dalla balena stessa e poi, nel momento in cui pensa che tutto sia ormai irrimediabilmente perduto e che nessuno possa averlo compreso, si ritrova catapultato dallo sfiatatoio del grosso cetaceo proprio nella baia di Sydney. Nel punto esatto in cui voleva arrivare.
Intervista a Gabriele Lavia