Odessa, Teatro nazionale dell'Opera

Kyiv bandisce il russo, ma una lingua amata (e parlata) non può essere sequestrata

Adriano Sofri

La cancellazione della cultura russa, ripudiata dal popolo ucraino, passa necessariamente per l'oblio della lingua di Tolstoj, radicata in un profondo bilinguismo. 

Odessa, dal nostro inviato. Oggi ho comprato una splendida edizione rilegata delle “Dvenadtsat stulyev” (“Dodici sedie”, 1928) di Il’f e Petrov, la celebre coppia di scrittori di Odessa: pensate probabilmente di non conoscerli, ma avrete visto almeno uno dei tanti film che ne sono stati tratti, compresi Mel Brooks e Carlo Mazzacurati. Non leggo il russo e solo decifro il cirillico, ma un buon libro è sempre un affare. E mi chiedo che cosa succederà ora del mercato ucraino di libri in russo: una mecca, forse, per i veri affaristi. Sui social circolano notizie grottescamente forsennate sulla distruzione forzata di biblioteche e testi russi, e si procurano un’adesione così credula da lasciare increduli. Ma sulla cultura si gioca una partita che pesa quasi quanto quella sul campo di guerra, e che potrà essere decisiva per il mondo che ne verrà fuori. Alcuni giorni fa il Parlamento di Kyiv ha votato a larghissima maggioranza una legge che impone restrizioni drastiche su pubblicazione e importazione di libri in russo di autori successivi al 1991, e sull’uso pubblico di musica di autori russi dopo quella data.

Il ministro della Cultura, Oleksandr Tkachenko, soddisfatto della legge (che sarà controfirmata da Zelensky) ha usato un’espressione forte e sconcertante sul pubblico ucraino, che “dopo l’invasione russa non riesce più ad accettare a livello fisico nessun prodotto creativo russo”. E secondo la vicepresidente del Parlamento, Olena Kondratyuk, “dal primo gennaio 2023, i libri saranno pubblicati e distribuiti solo nella lingua ucraina di stato, nelle lingue dei popoli indigeni dell’Ucraina e nelle lingue ufficiali dell’Unione europea”.

In realtà si sta svolgendo, nel mezzo di un conflitto spietato, una battaglia analoga a quella che, a gran distanza e in tempo di pace, ha segnato la cancel culture americana rispetto allo schiavismo, alla segregazione, al culto dei valori e degli stivali confederati. L’analogia è spesso esplicita. Nel marzo scorso Volodymyr Sheiko, musicista e direttore dell’Istituto ucraino, intitolava: “Cancel Russian Culture come un mezzo per sopravvivere”; definiva “neocoloniale” la guerra russa, e la resistenza ucraina come un capitolo di liberazione coloniale. “La questione del ‘che cosa fare con la Russia dopo la guerra?’ sarà una grande sfida per gli studi postcoloniali. La Russia è un infelice anacronismo che non è passato attraverso il doloroso processo della decolonizzazione, e però per qualche ragione le istituzioni occidentali non sono pronte ad accettarlo”. Si citano le tepidezze delle istituzioni francesi, o del motto del Pen tedesco, “il vero nemico è Putin, non Puškin” (ben trovato, ma ieri sono passato davanti al Puškin della gran strada omonima, e ho pensato che forse ero stato l’ultimo a fotografarlo con un mazzo di fiori freschi a fargli onore). Ha una sua forte efficacia l’accusa alle grandi istituzioni occidentali – il MoMA, la Royal Academy a Londra, il Palais Royal – di aver ospitato splendidamente l’“arte russa”, come nel 2017, senza distinguerne le componenti, senza indugiare sui nessi col totalitarismo, e soprattutto senza badare a spese riguardo alle risorse investite dal regime per propagandarla.

Monumenti e nomi di città paesi e strade sono l’oggetto primo del ricambio, tanto più in un paese in cui l’avvicendamento di erezioni e abbattimenti (o confinamenti in magazzini o in mostre della mostruosità) è stato ininterrotto, quanto quello fra i dominatori e le vittime di turno. Sono gli aspetti più vistosi e fotogenici. Monumenti di liberatori abbattuti. Statue colpite a morte dallo stesso invasore, come il grande Puškin bombardato davanti al teatro di Mariupol, o come il busto del poeta nazionale Taras Shevchenko, un foro sulla fronte, bersaglio del tiro a segno dei soldati frustrati a Borodjanka. L’epurazione, la “derussificazione”, non si ferma nemmeno davanti ai grandi nomi che sembravano aver meritato immortalità e universalità. Ci sono a Kyiv una piazza Tolstoj e una stazione della metro Tolstoj in attesa di essere rinominati, con un sondaggio fra la popolazione – salvo che sia già avvenuto. Il Lev Nikolàevicč Tolstoj, ha ricordato qualcuno, per il quale il patriarca Kirill aveva confermato la scomunica del Santo Sinodo del 1901.

C’è e ci sarà gran materia di attenzione e discussione, soprattutto, o forse solo, fra chi solidarizza con l’Ucraina aggredita e violata e con la sua resistenza. Mi sembra indubbio che la questione cruciale sia la lingua. Cruciale è stata già dopo la cosiddetta rivoluzione arancione nel 2004 e poi la rivoluzione di Euromaidan del 2014. Fino alla presidenza di Yanukovich, il candidato quisling di Putin, vigeva il sistema bilingue. Le proposte per fare dell’ucraino la lingua ufficiale riscossero in un sondaggio del 2017 il sostegno di una maggioranza del 61 per cento; nei territori prevalentemente russofoni dell’est e del sud, compresa Odessa, una equivalente maggioranza favoriva invece il sistema bilinguistico.

Risale comunque alla discussione parlamentare fra l’ottobre 2018 e l’aprile 2019 la “Legge per assicurare l’ucraino come lingua di stato”, approvata dopo il voto su 2 mila emendamenti, e firmata da Poroshenko, al suo ultimo atto, così da entrare in vigore nel luglio 2019. Il successore, Zelensky, commentò allora criticamente che si sarebbe impegnato a garantire “i diritti costituzionali e gli interessi di tutti i cittadini ucraini” (Zelensky, sappiamo, è lui stesso russofono all’origine). 

La legge prevedeva una Commissione nazionale per le modalità esemplari di uso dell’ucraino, e la verifica della sua conoscenza per l’accesso alle carriere militari, diplomatiche, legali, mediche, educative (c’è un’eco continua di vicende sudtirolesi…). Sui mezzi a stampa si prevedeva l’uso di qualsiasi lingua, a condizione che un numero equivalente di copie uscisse in ucraino. Per i libri, la pubblicazione di almeno la metà dei titoli in ucraino. Per le trasmissioni, un 75 per cento in ucraino, così come nei servizi, trasporti, sanità, salvo desiderio diverso degli utenti. All’insegnamento pubblico del russo erano riservati asili e scuole elementari. Nelle relazioni pubbliche – bar, per esempio, negozi – il russo era previsto quando fra i parlanti ci fosse accordo; e nessuna restrizione toccava le conversazioni private.

Le cose sono molto cambiate. Il ripudio del russo dagli stessi suoi parlanti è enormemente cresciuto. Il proposito di compiere il ricambio entro una generazione è ora condiviso da Zelensky – “lo state facendo. In una generazione, e per sempre”. Si moltiplicano, in effetti, i corsi gratuiti di ucraino. Epiteti come “orchi” o “rushist” – crasi di russi e fascisti – sono comuni. 

Sui muri di Odessa costellati di manifesti, disegni, poster, di chiunque voglia, uno ha il ritratto di Nikolaj Gogol’, col suo nome cancellato e riscritto in ucraino, Mykola Hohol: qui (oltre che a Roma) scrisse “Le anime morte”, e il suo è un caso esemplare: suo padre era traduttore e scrittore in ucraino…

La persuasione sottintesa, o dichiarata, è che la nazione sia la lingua. Ci abbiamo creduto tutti, più o meno, prima o poi. Tuttavia si rischia di perdere molto, troppo. Gli ucraini che hanno parlato e ascoltato parlare in russo dall’infanzia sono forse un terzo. Si chiama Surzhyk, in Ucraina, la lingua parlata che mescola ucraino e russo: è singolare che il termine derivi da una mescolanza di grano e altri cereali. 

Chi ha frequentato persone ucraine in questi mesi sa che un’espressione come quella del ministro, “non riesce più ad accettare a livello fisico nessun prodotto creativo russo”, lascia sgomenti ma corrisponde alla realtà. Ci sentiamo dire: “Non potete capire”. Ne avemmo un sentore alla Via Crucis romana. Tuttavia non è inevitabile lasciare che una lingua, quando la si sia amata, e tanto più quando la si sia parlata, venga sequestrata da un nemico. Nel 1944 Leone Ginzburg (che era nato a Odessa) a Regina Coeli, torturato e presso a morire, disse: “Guai a noi se domani non sapremo dimenticare le nostre sofferenze, guai se nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco”.

Penso che una gran parte della posta della guerra imperialista contro l’Ucraina stia qui.  
 

Di più su questi argomenti: