Odessa (LaPresse)

Il reportage dall'ucraina

Musica e danza a Odessa, mentre dal cielo arrivano i missili

Adriano Sofri

Ha riaperto l'Opera e il centro torna vivo e colorato e musicale (quasi) come quello di una grande bella città di mare d’estate. Le sirene d’allarme però di tanto intanto risuonano, come a ricordare l'esistenza sospesa: la dolcezza della vita, sotto condizione

Odessa, dal nostro inviato. Odessa, lunedì. Era successo in aprile in altre città. Lo scorso 21 maggio il sindaco di Mykolaïv, Oleksandr Senkevich, ha informato che il monumento a Puškin, al centro dell’omonimo parco cittadino, era stato rimosso per sventare vandalismi. E che il suo futuro destino sarà deciso solo a guerra finita. Così Aleksandr Sergeevicč Puškin (1799-1837) è tornato nel dibattito geopolitico. L’ha citato, forse incautamente, Charles Michel nella sua visita a Odessa, non perché subito dopo ha commesso la leggerezza di riparare in un rifugio antiaereo, ma perché doveva essere superficialmente informato sui sentimenti nazionali del padre della lingua letteraria russa. Poi, ha spiegato lo storico Orlando Figes citato da Barbara Stefanelli sul Corriere, è toccato a Dmitri Medvedev di attingere per le sue minacce all’occidente all’invettiva di Puškin contro “i calunniatori della Russia”, 1831.

 

Ma le cose sono – sarete contenti – più complesse. In un articolo della russista Muireann Maguire (Exeter University, 2020) avevo trovato un’esemplificazione dell’ubiquità di Puškin nel linguaggio comune russo: “I versi delle poesie e delle opere teatrali di Puškin sono modi di dire proverbiali nel linguaggio moderno; banalmente, se un lavoro non viene fatto, si chiederà: ‘E chi lo farà? Puškin?’. Se si perde qualcosa, la domanda è: ‘Chi l’ha presa? Puškin?’”. A Odessa l’onnipresenza di Puškin è confermata a ogni cento passi. Sua, e di uno dei suoi fratelli, Lev Sergeyevic, di sei anni minore, letterato anche lui, militare, e poi vissuto e morto a Odessa, nel 1852, portandosi nella tomba il desiderio di andare a Parigi a vendicare Aleksandr dal suo uccisore in duello, e cognato, Georges Charles D’Anthès (chi non vorrebbe raccontare di nuovo il maledetto duello mortale – mi limito a rimandare a Serena Vitale, “Il bottone di Puškin”). Nel medaglione di bronzo col ritratto di Lev, davanti alla casa dove visse, il devoto fratello minore ha un volto regolare incorniciato da capigliatura favoriti e barba un po’ più che cavouriani. Nei numerosi ritratti statuari di Aleksandr, e in particolare nella statua ad altezza più che naturale sul marciapiede antistante il (chiuso) Museo Puškin, nella Puškinskaya, accanto al madornale Hotel Bristol, si nota un trattamento dei lineamenti teso ad accentuarne un’ascendenza africana. Sapete che Puškin aveva un bisnonno materno – il padre del padre della madre – africano, di origine principesca etiope nella successiva leggenda famigliare, piuttosto camerunense, secondo ricerche recenti. Rapito e messo sul mercato ottomano, il bambino era stato riscattato e donato a Pietro il Grande, che lo liberò e gli diede il suo patronimico, Ibrahim Petrovich, cui il pupillo, cresciuto e avanzato in carriera fino al grado di generale, aggiunse il nome di Gannibal/Hannibal, aspirando al lustro del grande cartaginese. Sua nipote, la madre del poeta, Nadezhda, sarebbe stata ammirata come “la bella creola”. 

 

Puškin rivendicò spesso quella ascendenza, scrisse, senza completarla, una biografia dell’avo – “Il negro di Pietro il Grande”, ci sono le versioni italiane – e si definì “Afrikanets”: Puškin l’Africano, insomma. La romanzesca ascendenza attirò già nel 1847, a dieci anni dalla morte tragica di Puškin, l’attenzione di un poeta abolizionista d’oltre Atlantico, John Greenleaf Whittier: “Il poeta della Russia, il prediletto dello zar e del popolo, l’uomo così mirabilmente dotato, così onorato, così compianto, era un uomo di colore – un negro? Così sta la cosa, per incredibile che possa apparire al lettore americano”.

 

E’ successo che Puškin, evocato di volta in volta come colui che aveva aperto alla Russia una finestra sull’Europa, “entrare in Europa e rimanere Russia”, o come il suo sfidante, “ci minacciate con le parole, provate con i fatti!”, sia entrato anche in pieno nella discussione internazionale sul pregiudizio culturale. Del resto in una lettera del 1824 (cit. in “Under the Sky of my Africa: Alexander Puškin e la Blackness / la nerezza”, a cura di Catharine Nepomnyashchy, Ludmilla Trigos e Nicole Svobodny, intr. di Henry Louis Gates Jr., 2006) aveva scritto, a proposito della schiavitù nera negli Stati Uniti: “Si può pensare al destino dei greci allo stesso modo che al destino dei miei fratelli negri / così: negr /, e auspicare per ambedue la liberazione da una intollerabile schiavitù”.  

 

Dostoevskij ricevette la sua consacrazione di padre delle lettere, e dunque della civiltà, russa, nel giugno 1880, alcuni mesi prima di morire, tenendo una travolgente commemorazione di Puškin, cui si inaugurava il monumento di Pietroburgo. Da quel discorso, pronunciato con parole “esaltate, esagerate, fantastiche, ma che dovevano essere dette…”, e teso a rivendicare all’animo russo, col profetismo di Puškin, “la parola definitiva dell’armonia universale”, estraggo la frase sul compito di “mostrare la via d’uscita alla tristezza europea”. Straniante, almeno a leggerla oggi, quando sembra che da Mosca venga il proposito di castigare la leggerezza, se non la felicità, d’Europa. 

 

E di Odessa, che sul sud e sull’Europa è da sempre affacciata: “Le amabili signore del sud, le grasse ostriche del Mar Nero, l’opera, i palchi in penombra…” ricordati da Puškin. Sabato mattina il comune informava: “Più di 160.000 fiori estivi saranno piantati a Odessa”. Domenica mattina i miei vicini giornalisti italiani tornavano a Mykolaïv, a misurare i danni del bombardamento del sabato, puerile rivalsa sulla visita di Zelensky: volevo unirmi a loro? “Ma io ho il balletto…”, mi sono scusato: un effeminato disertore, si sarebbe detto a suo tempo. Sono infatti diventato un habitué del gran Teatro, la cui riapertura è l’episodio più significativo della rinascita cittadina. Venerdì l’Opera, con un pubblico ridotto a misura della capienza del rifugio antiaereo sotterraneo, e forse più ridotto dalla preoccupazione di rappresaglie per il rimorchiatore affondato sulla rotta dell’Isola dei Serpenti. Domenica il Balletto, con un pubblico più numeroso, e la stessa atmosfera tesa e, precisamente, risorgimentale, in platea e nei palchi: e tuttavia non un’autorità, una concione patriottica, una uniforme militare. Giornali e telegiornali storcono la bocca alla proposta di riferire del repertorio canoro di Verdi e Bizet, del corpo di ballo in Gluck o nel Sirtaki di Theodorakis: e i missili, e le macerie, le vittime? E’ venuto in soccorso il New York Times, con un gran servizio sul gala dell’Opera, riccamente illustrato.

 

Il fatto è che la guerra ha tante facce. Ha quella della ferocia gratuita, a Bucha, della distruzione belluina, a Mariupol o a Severodonetsk, e della minaccia sospesa, su Odessa. Cui non mancano il gas, la luce, l’acqua, le merci luccicanti nei supermercati, i concerti di strada, “Masquerade” di Khachaturian (dal testo, si noti, di Lermontov) il prossimo venerdì, “Nabucco” di Verdi il prossimo sabato… Domenica sera il centro di Odessa era vivo e colorato e musicale come quello di una grande bella città di mare d’estate. Quasi come: perché la dolcezza della vita si sa sotto condizione. Le sirene d’allarme suonano più volte, e pressoché nessuno se ne dà per inteso. Poi, verso le tre di notte, sono suonate più a lungo e più forte. Poi, alle sette di mattina, un fragore fortissimo ha spaccato l’aria e fatto tremare le finestre, ed era un missile arrivato in mezzo al cielo cittadino, così, per farsi sentire, e fatto esplodere dalla contraerea – questa volta i pochi che erano già in strada correvano. Più tardi, nella mattinata, altri due missili, questa volta riescono ad atterrare sul bersaglio ma più lontano dalla città, all’aerodromo di Artsiz, senza fare vittime. Tre missili in un giorno non sono un bombardamento, sono un pedante promemoria. Altri due missili Oniks erano stati abbattuti in volo su Odessa sabato, con meno frastuono. 

 

“Mostrare la via d’uscita alla tristezza europea”. Quale miseranda cupezza deve imperare nel vuoto del Cremlino. Guardavo il balletto, grazia e leggerezza, a Mosca sanno di che cosa si tratta – uno dei direttori del Bolshoi ha lasciato ed è venuto qua: che razza di musica deve aver ascoltato Vladimir Putin per aver voglia di invadere l’Ucraina?

A ognuno il suo Puškin, naturalmente. 
“… e lì, sotto il tuo cielo di mezzogiorno,
la mia Africa, dove le onde si infrangono alte,
è tempo di piangere il cupo sapore della Russia”.
Adriano Sofri

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