Marta Cartabia (Ansa) 

piccola posta

Cara Cartabia, spieghi la riforma e si difenda dai giudizi triviali ricevuti

Adriano Sofri

La ministra della Giustizia scelga una sede – una televisione, una piazza d’Italia, un posto che non abbia le regole, le limitazioni e i rituali del Parlamento – e degli interlocutori: i cittadini non hanno sentito i suoi argomenti, solo gli insulti

Ci sono giudizi opposti sulla riforma della giustizia, sia pure opposti alla maniera del mezzo pieno e mezzo vuoto come dopo il compromesso di un compromesso. Sembrano ora affidati alla verifica dei fatti. Ma c’è un capitolo compiuto che esigerebbe subito un bilancio. Una campagna molteplice ha additato la riforma cosiddetta Cartabia, così come era stata accettata dall’intera maggioranza (dopo essere passata dal presidente emerito della Consulta Lattanzi al sottosegretario Sisto, o dal ragionevole recupero della prescrizione all’improcedibilità, e così via) come un regalo alla mafia e ai delinquenti in genere. Pronunciamenti di vario stile ma concordanti sulla sostanza hanno dichiarato che migliaia, decine e centinaia di migliaia di processi sarebbero “andati in fumo”. Insulti triviali sono stati metodicamente rivolti a Marta Cartabia, specialmente (non solo) dal Fatto e dal suo direttore, il creativo inventore di formule come “la schiforma”, passata tal quale dai suoi pezzi alla prima pagina e ai comunicati dei 5 stelle originari: o inetta o complice della mafia.

Anche dopo l’approvazione della legge, le rivendicazioni dei suoi riparatori, da Conte ai suoi parlamentari agli eminenti magistrati, ribadiscono di aver salvato la giustizia italiana dall’affossamento delle centinaia di migliaia di processi, a cominciare da quelli alla criminalità organizzata, e dall’universale salvaladri. Il procuratore antimafia e antiterrorismo, Cafiero De Raho, aria da persona seria, e infatti non guardava in camera mentre vaticinava, testualmente, conseguenze sulla democrazia e minata la sicurezza del paese se la legge Cartabia già approvata in Consiglio dei ministri fosse passata, ha commentato la legge emendata in Aula così: “Ora c’è la certezza che processi per reati gravi, come mafia e terrorismo si celebreranno” (più sbrigativamente il virgolettato dei titoli: “I processi per mafia si faranno”).

Ma questo, e le frasi analoghe pronunciate da tutti gli esponenti del fronte dei salvatori in extremis della legge, vogliono dire, e dicono al pubblico, che con la legge disegnata da Cartabia e Draghi, quella per la quale era stato comunque annunciato il voto di fiducia, “i processi per mafia non si sarebbero fatti”. E così i processi per terrorismo, e i processi per i grandi disastri – la strage di Viareggio, il ponte Morandi, la funivia del Mottarone... E la stessa richiesta di inserire fra i reati di cui tutelare la persecuzione i disastri ambientali, assolutamente ragionevole per sé, implica la convinzione che senza quell’inclusione i crimini contro l’ambiente saranno improcedibili... In televisione abbiamo visto e ascoltato con dolore Ilaria Cucchi deplorare convintamente che con la legge Cartabia pre-emendamento i processi per Stefano non sarebbero avvenuti, e Gratteri confermare, oltre a proclamare la riforma la peggiore a memoria d’uomo, la sua.

 

La domanda è: Marta Cartabia è disposta a passare oltre senza scrollarsi di dosso questa mole di asserzioni? Ha impiegato in Parlamento i suoi argomenti, certo. Ha mostrato che i tempi previsti dalla legge nella versione del primo compromesso erano già quelli rispettati dalla maggioranza delle procure e dei tribunali italiani, e clamorosamente mancati in altri. Ha sostenuto che la legge non sarebbe stata retroattiva, e che dunque l’elenco intimidatorio dei processi aperti sui casi più drammatici era infondato. Ha avvertito che i tempi stretti erano bilanciati da misure di rafforzamento di organici e collaboratori e risorse materiali. Eccetera. Mi pare che non basti. Mi pare che la ministra Cartabia potrebbe scegliere una sede – una rete televisiva, una piazza d’Italia, un posto che non abbia le regole, le limitazioni e i rituali del Parlamento – e degli interlocutori: non so, Ilaria Cucchi, i parenti delle vittime di Viareggio o di Rigopiano, De Raho, Gratteri... (non dico Travaglio, c’è un limite). Esempi come quello, riferito dal rettore di Napoli, del docente assolto dopo vent’anni, colpiscono, ma non abbastanza, e del resto Napoli è la città di Bassolino, e l’ha già scordato. 

Non sono affamato di spettacolarizzazione, al contrario. Cartabia ha argomentato la sua posizione in Parlamento, che è il luogo deputato. Ma la stragrande parte dei cittadini italiani non ha sentito. Hanno sentito e visto in casa loro, sugli schermi, in più e più repliche, De Raho e Gratteri, e Di Matteo e Ilaria Cucchi, e letto ogni sera nelle rassegne televisive i titoli in cui lei Cartabia era bugiarda, complice, incapace, poveretta, ministra del nulla e, l’apoteosi, guardagingilli. Penso che convenga reagire al rischio di passare alla storia, cioè alla rete, come la ministra della Giustizia che tentò di far passare una riforma salvamafiosi, salvacorrotti, salvaladri. (Successe già a persone degne in quel posto scomodissimo: Giovanni Conso, per dirne uno).