Nicola Gratteri e Federico Cafiero de Raho (LaPresse)

Appunti allegri per la brigata Gratteri

Pm contro la Costituzione

Claudio Cerasa

I magistrati che accusano Cartabia e Draghi di essere nemici della democrazia andrebbero lodati per aver ammesso che il giustizialismo è contro la Costituzione

C’è un dettaglio importante che sembra sfuggire nel dibattito spesso maldestro che ruota attorno al tema della riforma della giustizia. Un dettaglio forse difficile da inquadrare ma necessario da considerare per provare a capire come diavolo sia possibile che di fronte a ogni riforma che tende a riportare lo stato di diritto su un binario compatibile con lo spirito della nostra Carta costituzionale vi sia un numero considerevole di magistrati desideroso di rivolgere al legislatore di turno l’accusa specifica di essere un pericoloso nemico della Costituzione. Nel caso specifico, ad aver accusato il ministro Cartabia (ex presidente della Corte) e Giorgio Lattanzi (magistrato, capo della commissione che ha redatto la bozza di riforma della giustizia e già presidente  della Corte costituzionale) di essere dei nemici della Costituzione sono stati tra gli altri il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

 

Più che essere derisi, però, i due autorevoli magistrati andrebbero ringraziati per aver avuto il coraggio di mettere in luce ciò che spesso non si ha l’onestà di riconoscere fino in fondo quando si parla del futuro della giustizia. La questione è purtroppo evidente e si può tentare di riassumerla brutalmente così. Esiste un pezzo della magistratura italiana, non sappiamo quanto minoritaria, che da anni ha scelto di sostituire alcuni dettami della Carta costituzionale con i dettami previsti da una Carta costituzionale alternativa, immateriale, imposta nella prassi quotidiana dalla cosiddetta Repubblica delle procure a colpi di manette. I magistrati che hanno scelto di seguire questa strada pericolosa sono quelli che non si accontentano di essere i custodi del codice penale ma sono quelli che tendono a dare alla propria professione una connotazione speciale, da sacerdoti dell’etica e della morale, e sono quelli che in definitiva non si fanno grandi scrupoli a calpestare ogni giorno alcuni articoli della Costituzione.

 

I magistrati in questione li si riconosce perché sono quelli che tendono a considerare l’articolo 27 della Costituzione – l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva – come un accessorio negoziabile, un portachiavi dello stato di diritto. Li si riconosce perché sono gli stessi poi che di fronte all’articolo 111 della Costituzione – ogni processo si deve svolgere nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, all’interno di un percorso che garantisca alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo – sorridono di gusto, alimentando quando possibile il mostro del circo mediatico-giudiziario, usando gli avvisi di garanzia come bignè per rendere succulente le proprie indagini e arrivando ad accusare gli avvocati di essere i responsabili dei processi infiniti (il 60 per cento delle prescrizioni matura nelle indagini preliminari).

 

E li si riconosce poi perché sono sempre gli stessi che tendono a forzare a loro piacimento lo strumento della custodia cautelare, a trasformare le indagini in strumenti utili non a punire reati concreti ma fenomeni sociali, a utilizzare l’obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione) in un qualcosa volto non a garantire l’indipendenza del pubblico ministero ma in qualcosa volto a garantire la sua indisturbata indiscrezionalità. Bisogna dunque ringraziare tutti i magistrati che in questi giorni stanno accusando il ministro Cartabia di essere portavoce di una riforma anticostituzionale perché con il loro atto coraggioso stanno dando a noi comuni mortali la possibilità di fare i conti con un dramma della giustizia italiana: la trasformazione di alcuni pm in figure intenzionate a difendere a denti stretti la propria Costituzione alternativa e desiderose di rendere evidente quello che Re Luigi XIV aveva sintetizzato con una formula efficace: “L’état, c’est moi”. Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.