Lo staff di Dress You Can: l’estensione temporale del servizio milanese di abiti da cerimonia, cocktail o festa è di soli tre giorni, e ha molto successo

L'affitta abiti

Fabiana Giacomotti

Sempre buona la griffe, ma non è più tempo di acquisti senza freni. È l’ora dei “Netflix della moda”: il modello si diffonde anche in Italia

“Sì, certo che potrebbe essere interessante anche per le boutique entrare a far parte delle piattaforme e delle app online che affittano abiti di stagione su abbonamento, come Rent the Runway. Dieci anni fa avrei sostenuto il contrario, difendendo il negozio reale e il solo rapporto uno-a-uno fra cliente e venditore, ma il mercato in questo momento è troppo fluido e complesso perché ci si possa arroccare su posizioni dogmatiche. Fatti salvi i servizi connessi al lusso, tutto quello che serve a muovere le vendite va bene, anche la sharing economy”. Esordisce così Beppe Angiolini a poche ore dall’apertura di OroArezzo, lo storico appuntamento fieristico orafo di cui è direttore artistico e che affianca all’attività di massimo buyer italiano, forse europeo, con un giro d’affari di decine di milioni di euro e una costante frequentazione di tutte le fashion week mondiali che l’ha portato a un seguito da popstar su Instagram. Lo seguiamo con costanza anche noi del settore, un po’ perché nessuno possiede la sua energia e dunque, quando saltiamo qualche appuntamento per stanchezza o per altri impegni, siamo certi di poter vedere qualunque sfilata valga la pena di non perdere sul suo account, serenamente seduti alla scrivania o stravaccati sul divano; un po’ perché, fra una passerella e l’altra, il signor Angiolini piazza certe massime stralunate che sono una vera goduria; per esempio, cito l’ultima, “l’alcol nuoce gravemente ai messaggi whatsapp che scriverai nelle prossime due ore”.

  

H&M investe da anni in una piccola collezione di moda sviluppata da tessuti rigenerati. Aprono negozi di riparazione di borse e cappotti

Abilissimo, molto simpatico, dalla sua boutique di design nel centro di Arezzo con pavimento a mosaico romano scoperto per caso anni fa sotto strati di calce e piastrelle qualunque e recuperato da un team di archeologi del Mibac, Angiolini stocca e smista per i grandi brand imponenti quantità di prodotto-moda, un occhio al mercato e uno alle tendenze. E la tendenza dice, senz’ombra di dubbio, che il modello fast fashion ha bisogno di un ripensamento e di nuove proposte, più sostenibili, mentre la sharing economy delle piattaforme di affitto di capi come l’americana Rent the Runway o la piccola impresa italiana Dress You Can, oltre al mercato vintage, stanno prendendo piede fra chi, fino all’anno scorso, comprava senza alcuna attenzione all’ambiente e all’etica del lavoro. Non è un caso che H&M stia investendo da anni in una piccola collezione di moda sviluppata da tessuti rigenerati (reti da pesca, piatti di plastica), e che nelle città stiano aprendo negozi di riparazione dei cappotti e delle stesse borse che fino a dieci anni fa si sarebbero buttate via. Dovevamo soffocare nelle nostre case affollate di robaccia per renderci conto che vale la pena di investire in cose di qualità e di conservarle come facevano le nostre nonne, oppure di affittarle per il tempo necessario a non stancarci di loro o, ancora, di rivenderle sui marketplace come Rebelle, favorendone il riuso.

  

Le vendite di moda in Italia sono stagnanti ormai da qualche anno, in misura molto rilevante nell’ultimo semestre, com’è facile evincere se si leggono con attenzione gli andamenti dei consumi nelle città meno frequentate dai turisti (una fonte primaria sono i trend di movimentazione delle carte di credito forniti da Amex o dagli operatori di tax refund come Global Blue). Eppure, il mercato della moda non è mai stato frizzante e interessante come adesso. Questo accade grazie alle scelte eccentriche, inclusive e personali dei millennial, come spiega uno che ha lasciato la categoria, lo stilista quarantenne Gilberto Calzolari, vincitore dell’ultima edizione dei Green Carpet Fashion Awards promossi dalla Camera nazionale della moda, che dei ventenni sposa la filosofia e l’attenzione all’eco-sostenibilità, fosse pure la semplice scelta di recuperare e “indossare nuovamente gli abiti di famiglia”, un vezzo che fino a pochissimo tempo fa apparteneva solo ai ricchi e agli aristocratici, ai Lapo Elkann e ai Borromeo, gli unici in realtà ad avere la disponibilità di guardaroba preziosi da generazioni.

   

Rent the Runway lanciato da due ex studentesse di Harvard. Alle milanesi di Dress You Can l’IT4Fashion Innovation Award

Ora siamo ormai alla terza generazione di benessere, qualcosa negli armadi di cui menare vanto iniziano ad averlo in molti, e si vede; soprattutto al nord, dove la mentalità è meno legata al possesso della “roba” modello padron ‘Ntoni dei Malavoglia e alla novità, rispuntano le borsette di coccodrillo marrone sfumatura “moka” della nonna e i cappotti dello zio in tweed spinato. Questa primavera le ragazze stanno indossando le gonne di tulle anni Ottanta della mamma, modellandole su quelle dell’ultima collezione di Dior che in effetti si ispirano agli stessi anni. In parallelo, tutti guardano con interesse alla moda riciclata. Quindici anni di ossessione per la moda a basso prezzo prodotta chissà come e soprattutto senza volerlo sapere, delle t shirt a 9 euro e 90 centesimi di forever 21, dell’abito così così ma nuovo ogni giorno, ci hanno lasciati con la consapevolezza di aver appesantito il pianeta di tessuti sintetici, fumi e coloranti tossici ben oltre il necessario (la moda è la seconda causa di inquinamento, subito dopo gli scarti della lavorazione del petrolio), di aver sfruttato il lavoro nelle aree più povere del pianeta senza ritegno.

  

Indossare nuovamente gli abiti di famiglia, un vezzo che fino a pochissimo tempo fa apparteneva solo ai ricchi e agli aristocratici

Il fenomeno Greta Thunberg potrà anche non piacerci e certamente troveremo molto ipocrita la sua scelta di scandinava che mangia banane arrivate sulle coste dello Jutland in aereo; però, ci pare sempre più evidente che sia la prima ad aver davvero scosso le coscienze dei suoi coetanei sui danni, non solo climatici, prodotti dal consumo continuativo e senza senso: entrate in un’aula di università e scoprirete che nessuno sa chi sia (ormai, in un certo senso “stato”) Al Gore, mentre tutti citano Greta e dichiarano di aver iniziato a leggere le etichette che accompagnano gli abiti solo da qualche tempo, cercando informazioni sui paesi di provenienza e di realizzazione dei capi che acquistano. Ma se il costo dei tessuti riciclati o rigenerati continua a essere proibitivo per molti (“il nuovo traguardo è far sì che la moda sostenibile diventi accessibile a tutti”, dice sempre Calzolari), il business dell’abbigliamento in affitto è quello a maggiore tasso di sviluppo del momento e che inizia a interessare anche l’Italia dove, manco a scriverlo, abbiamo inscritto questo modello di business nel dna. Noi italiani abbiamo iniziato a consumare beni di lusso o voluttuari con gioia e avidità appena abbiamo potuto permettercelo, ma in realtà abbiamo esperienza pluricentenaria nel riciclo e nella rivendita “di panni”, che è argomento molto frequentato non a caso anche dai nostri storici più rilevanti, due per tutte Maria Antonietta Muzzarelli a Bologna e Giovanna Motta a Roma. Se si considera che il mercato dell’usato e degli abiti dati in pegno favorì nel Quattrocento lo sviluppo della più antica istituzione bancaria mondiale, il Monte dei Paschi di Siena, e che nel Medio Evo, fra Emilia e Toscana, l’attività del “second hand” era fra le più sviluppate (oltre che una delle poche concesse agli ebrei, molto numerosi nel centro Italia), non è poi così stravagante che, sei secoli più tardi, l’Italia si ritrovi più che preparata ad affrontare, almeno nelle sue fasce di pubblico più giovani ed evolute, teniamo a precisarlo, un cambiamento epocale nel modo di consumare moda.

  

Il mercato dell’usato e degli abiti dati in pegno favorì nel ’400 lo sviluppo della più antica istituzione bancaria mondiale

Il modello americano di affitto di abiti griffati su abbonamento Rent the Runway, traduzione pedissequa “affitta la passerella”, subito ribattezzato “il Netflix della moda”, sta infatti dilagando in tutto il mondo, con qualche iniziale epigono anche in Italia. Lanciato nel 2008 da due ex studentesse di Harvard, Jennifer Hyman e Jennifer Fleiss, il network capitalizza ormai un miliardo di dollari e movimenta centinaia di migliaia di capi al giorno in tutto il continente nordamericano, fornendo un incredibile lavoro alle tintorie del New Jersey da dove partono e rientrano spedizioni giornaliere di “outfit”, cioè di abiti, scarpe, borse e gioielli, che vengono consigliati ai sottoscrittori dell’abbonamento a seconda del loro stile di vita, del loro fisico e dei loro gusti da un sedicente gruppo di stylist che, in realtà e come inevitabile, è un potente algoritmo e magari, prima o poi, se ne parlerà in sede di regolamentazione della blockchain di cui l’Europa vuole arrogarsi la primazia. Abbonarsi al servizio costa un massimo di 139 dollari al mese di “accesso illimitato” alle offerte di brand anche piuttosto rilevanti come Prabal Gurung, Derek Lam e l’italianissima Philosophy del gruppo Aeffe, che per una media dirigente con molte occasioni sociali a cui prendere parte è un costo più che abbordabile. In Italia, dove un po’ facciamo fatica a scendere a patti con il problema dell’odore corporale dei diversi utilizzatori di uno stesso capo in tempi ravvicinati, che permane anche dopo il passaggio in tintoria e che le fondatrici di Rent the Runway hanno risolto sviluppando uno speciale profumo con cui i capi vengono irrorati, l’affitto di moda va sviluppandosi non a caso soprattutto fra gli accessori, in particolare le borse. Volendo scorrere Instagram, si trovano le offerte di Rent_fashionbag: sfoggiare un modello Louis Vuitton Rossmore MM per una settimana senza abbonamento costa settanta euro, sessanta se abbonate (le sottoscrizioni vanno da un minimo di 24 euro per tre mesi a 48 euro per un anno).

  

A Milano, dietro corso di Porta Ticinese, c’è per l’appunto Dress You Can, premiata lo scorso anno con l’IT4Fashion Innovation Award. Le due fondatrici, Caterina Maestro ed Elena Battaglia, raccontano spesso di aver voluto creare un luogo fisico e il relativo sito web per condividere il loro guardaroba oltre al classico sharing fra amiche, destinandolo a un pubblico più ampio: il tema della doppia valenza ed esposizione del servizio, fisica e reale, è molto più rilevante di quanto si creda, al punto che perfino l’antesignana made in Usa ha appena aperto un negozio a Manhattan dove le clienti possono toccare con mano e provarsi i vestiti prima di affittarli. L’estensione temporale del servizio milanese di abiti da cerimonia, cocktail o festa è di soli tre giorni, ha molto successo, e proprio questo dettaglio apre uno scenario molto interessante e meritevole di una piccola riflessione di ordine sociologico e tecnologico al tempo stesso. Tre giorni sono infatti il tempo di una cerimonia e anche di un selfie, facciamo due. Dopo di che, non si avrà più interesse a indossare l’abito. I social network e l’uso continuativo ed esibizionista che ne facciamo (un recente studio ha calcolato che controlliamo i messaggi e i post fino a 150 volte al giorno, una frequenza da drogati), ci hanno resi non solo straordinariamente egoriferiti, ma anche vittime delle stesse modalità di consumo che un tempo appartenevano solo agli attori e alle dive. Nessuno di noi vuole farsi riprendere due, tre volte con lo stesso vestito, al punto che, per mostrare al mondo la morigeratezza nei consumi di Kate Middleton o della regina di Spagna, gli addetti stampa delle due case reali lavorano con una strategia a contrariis: fanno cioè circolare fra le riviste popolari le immagini della duchessa di Cambridge o della sovrana con lo stesso abito o lo stesso cappotto indossati mesi o anni prima. I social network ci spingono a cambiare abito di continuo, a mostrarci chic, cool, smart eccetera, ma non abbiamo più né la disponibilità economica né, soprattutto, la mancanza di etica, per comprare senza ritegno. Abbiamo un po’ di coscienza, forse, finalmente. E ce l’hanno anche i giovani cinesi, pare, e benché il leader di Alibaba Jack Ma, dopo aver investito in Rent the Runway e in un modello cinese molto simile, Y Closet, abbia dichiarato da poco di non essere convinto che i giovani cinesi siano già abbastanza ricchi e finanziariamente abili da poter gestire anche il micro flusso finanziario e di beni che la gestione in affitto di un guardaroba comporta. Per iniziare, ha imposto un deposito di 300 RMB, pari a circa un mese di abbonamento. Uno sharing felice ma occhiuto, per così dire.

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