Euphoria, sporco realismo con un po' di poesia

Prima le peggio cose e poi la riverniciatura moraleggiante

Mariarosa Mancuso

Euphoria” sta alle serie televisive come “Trainspotting” sta al cinema. All’origine della produzione Hbo – concentrata dal 26 al 29 settembre scorso su Sky Atlantic, in seconda serata per calibrare lo scandalo (si ricupera on demand e su Now Tv) – c’era una serie israeliana con lo stesso titolo, come succede sempre più spesso. Dieci episodi tratti da una storia vera, ambientati negli anni 90, trasmessi nel 2012 e firmati da Ron Leshem, il bravissimo sceneggiatore che aveva scritto “Beaufort” assieme al regista Joseph Cedar.

   

Per suggellare il passaggio di consegne, l’israeliano ha scritto un episodio (su otto) della versione americana voluta da Sam Levinson (il regista di “Assassination Nation”, un “So cosa hai fatto” per l’èra digitale). Il film che lanciò Danny Boyle era tratto dal primo romanzo di Irvine Welsh. Per la cronaca: 30 anni dopo aver raccontato la gioventù bruciata di Edimburgo (e i peggiori cessi della città), qualche settimana fa lo scrittore ha tenuto un dj set dalle parti di Bellinzona, in un ex convento delle agostiniane, e ha trovato il pubblico “delle Alpi” – così scrive in un tweet – particolarmente caloroso.

   

Il parallelismo si interrompe di botto quando il primo episodio di “Euphoria” finisce e compare la scritta: “Se stai vivendo problemi di dipendenza o situazioni di disagio non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita sky.it/euphoria”. Riuscite a immaginare una scritta simile alla fine di “Trainspotting? Noi no, e certo non perché siamo insensibili ai turbamenti della Generazione Z. Che sono più o meno gli stessi delle generazioni precedenti, aggravati dai social network e dal revenge porn (il fat shaming c’era già, bastava dire “ciccione”). “Un viaggio nella terra della vergogna”, a cui non esiste rimedio: “Se non siete Amish, i nudi sono la valuta dell’amore” (e qui in effetti se ne vedono parecchi, più che altro i famigerati “dick pic”: i maschi hanno smesso di misurarselo con gli occhi nella doccia, ora lo fanno davanti a un righello, a uso delle ragazze).

  

Prima le peggio cose: droghe legali e illegali mischiate all’alcol, padri di famiglia dalla doppia vita, bullismo e manie suicide, porno a tutte le ore, “promettimi che sarai sempre il mio spacciatore”. E poi la riverniciata moraleggiante: “Cari spettatori e cari critici, sappiate che non vi mostriamo tutto questo per alzare l’audience, lungi da noi il pensiero. Lo facciamo per dissuadere i giovani e aprire gli occhi ai genitori: son cose che succedono, e noi vogliamo aiutare chi si trova in difficoltà”. Va detto, per amor di cronaca e di varietà culturali nonché giornalistiche, che Wired americano ha bollato “Euphoria” come “l’anti binge watching”, quando è troppo è troppo. Mentre Wired italiano mette nella stessa frase “sigarette elettroniche, feste estreme, YouPorn” e apprezza la mano tesa ai giovani che hanno solo bisogno di essere ascoltati.

    

Rue ha passato l’estate a disintossicarsi, dopo un’overdose (l’attrice è Zendaya, era in “Spider-Man: Homecoming”). Ricomincia quasi subito, facendo pisciare un’amica al posto suo (la madre che esige il test antidroga è fuori di testa pure lei). Fa amicizia con Jules, bionda e vestita di rosa, appena arrivata in città. Intanto Kat la ragazza sovrappeso cerca di perdere la verginità, e ormai sono cose che si fanno in diretta sulle chat. La mascolinità è tossica (ormai si porta così, qualsiasi cosa voglia dire). In questo sporco realismo, la regia e la fotografia tendono al poetico-visionario. Anche quando annunciano pugni nello stomaco.

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