Caduti nell'Euphoria

Il sesso, la droga, tua madre che non sa niente, tuo padre che non capisce niente, il giovane mondo dei rapporti umani con il porno dentro i telefoni. E’ tutto nuovo, ma è tutto eterno

Annalena Benini

Il sesso, la droga, tua madre che non sa niente, la droga, tuo padre che non capisce niente, l’amicizia, altra droga, ma soprattutto il sesso. Chi ti piace, a chi piaci, a quanti piaci, quanto potere hai di far star male un altro, quante foto di cazzi hai sul telefono, e quindi chi sei.

 

Euphoria racconta gli adolescenti americani in otto puntate, otto ore di magnificenza e disperazione, feste da ballo e overdose, mette in campo tutto l’estremo, l’esplicito, mostra i corpi nudi e quella forza compatta che la giovinezza non sa nemmeno di possedere ma che sparge stelline d’oro e d’argento sopra ogni cosa. Come le stelline nell’ombretto di Jules, diciassettenne trans e angelica, bellissima (la modella e attivista Hunter Schafer), oggetto d’amore e d’ossessione, in cerca d’amore e di ossessione, e di un’identità. In cerca del suo potere.

 

Voglio sapere chi sono, lo scoprirò con questi appuntamenti online, anche pericolosi, con questa amicizia che mi fa vibrare

“Se riesco a conquistare gli uomini posso conquistare la femminilità. Ma non è la femminilità che voglio. Vorrei spazzarla via e passare al prossimo livello”, dice Jules alla ragazza che la sta truccando da arcobaleno per una serata in discoteca. E’ una dichiarazione di potenza, è un inizio di consapevolezza: voglio sapere chi sono, lo scoprirò con questi appuntamenti online, con questi incontri pericolosi nei motel, con questa amicizia che mi fa vibrare, farò innamorare tutti, farò soffrire tutti, e poi forse deciderò. Proverò tutto, chiederò tutto, dirò sì a tutto, euforica. Dirò sì anche ai padri di famiglia “finocchi” con i video porno nascosti nei cassetti chiusi a chiave (ma perché nessuno ha ancora capito che se un cassetto è chiuso a chiave verrà aperto?).

 

Jules è euforica, alla conquista del mondo nel cesso di una discoteca, e in quello stesso momento Rue, la protagonista e la voce narrante di Euphoria, tossica in via di guarigione ma sempre desiderosa di Fentanyl, si strugge d’amore per Jules o per qualcosa di più indefinito e doloroso (diventare grandi, non sapere come, smettere di drogarsi) chiusa nella sua camera da adolescente in cui tutti hanno magnifici e invidiabili letti matrimoniali, da ventiquattr’ore guarda tivù spazzatura, senza lavarsi senza mangiare senza bere, senza nemmeno strisciare fino al bagno per fare pipì, finché tutta quella pipì trattenuta le entrerà nel cervello e nei reni e lei finirà in ospedale con un’infezione renale. Non è spoiler, perché Euphoria è molto di più (serie prodotta dalla Hbo, è appena andata in onda su Sky, tutte le puntate sono on demand, ognuna con la raccomandazione di non sottovalutare situazioni di disagio e dipendenze, e con la raccomandazione specifica a me di non guardarla insieme a mia figlia di tredici anni, e io infatti l’ho guardata da sola, ma lei ogni tanto passava di qua, diceva: inquietante, e se ne andava): è il tentativo ambizioso di un nuovo racconto di formazione americano e contemporaneo, in cui le ragazze pon pon della solita squadra di rugby vanno alle feste insieme alle dominatrici sessuali online, ovviamente molto più interessanti, che si fanno pagare in bitcoin dai loro schiavi e in cambio li umiliano: “Sei patetico, nessuna donna vorrà mai scoparti, ce l’hai piccolissimo, sei uno sfigato”. Gli schiavi sembrano felici e grati, la ragazza grassa, sveglia e dominatrice può comprarsi sempre più corpetti di pelle rossa e superare tutti i complessi sull’aspetto fisico, superare i traumi di quando le gridavano dietro: lardosa e anche un po’ vendicarsi (“non c’è niente di più potente di una ragazza grassa a cui non frega un cazzo”), può affermare la sua supremazia, la sua imponente bellezza, e alle feste adesso i ragazzi la cercano, perché non si nasconde più, non cerca più di occupare il minor spazio possibile.

 

E’ il tentativo ambizioso di un nuovo racconto di formazione americano e contemporaneo. Ciò che non cambia mai è lo sguardo

E’ perfino rassicurante accorgersi che il punto è sempre questo: con tutta la modernità, la mescolanza di genere, l’ammucchiata euforica da cui non sono esclusi nemmeno gli adulti, con tutte le droghe e le app di incontri, con tutti questi semplicissimi, diretti: vuoi che te lo succhi?, c’è qualcosa che non cambia mai, ed è lo sguardo.

 

Guardarsi, esistere perché gli occhi ti guardano, volersi ammazzare perché nessuno ti guarda, fare di tutto per essere guardati. Arrivare a una festa a testa alta, sentire qualcosa di nuovo (“Sei diversa!”, “Sono cambiata”), e pensare allora di avercela fatta.

 

L’adolescenza è questo, ancora e per sempre, e tutto il resto è una cornice spettacolare, spaventosa, inquietante, fantastica, ma è una cornice. Euphoria ha una forza perché racconta con naturalezza il mondo nuovo, senza mai indugiare sulla novità: il punto non è mai che Jules è transgender, il punto è sempre che Rue forse la ama, e che però forse lei ama uno stronzo che la ricatta.

 

Il punto è sempre: “Giura sulla tua cazzo di vita che non lo dirai a nessuno”, e l’amica giura, e porge l’orecchio, e poi il segreto vola di qua e di là e non è più un segreto, ma perché mai dovremmo raccontare i segreti in giro, se non per desiderio di farli scoprire? Per desiderio di esistere, anche, per essere quelli che hanno un segreto. E a guardare questi sedicenni che parlano come adulti e sono molto superiori ai loro genitori anche da strafatti (il padre eroinomane torna a casa per rubare le posate d’argento e la figlia sa che l’ha perso, e sa che non deve dire niente a sua madre), la reazione è ancora di riconoscimento, anche se sono passati secoli: siamo tutti lì, con la paura di non esistere e con la fatica di esistere. Siamo lì, a cercare di conquistare qualcosa. Siamo lì, a occuparci della nostra reputazione, a spifferare segreti, a guardarci allo specchio, a confrontarci le cosce, il cervello e l’infelicità.

 

La cosa stupefacente di questo affresco modernissimo, sofisticato, è che niente è davvero cambiato. Almeno in America

Nell’adolescenza però esplode la bomba dei rapporti umani, esplode con una tale potenza che molti decenni dopo ci ricordiamo solo di quello, e tutta l’euforia e la disperazione arrivano da lì, molto più che dal Fentanyl e dall’mdma e dalla cocaina e dalle nuove pasticche che Rue è disposta a provare per sentirsi felice, per non sentire l’astinenza. Va agli incontri dei Narcotici anonimi, imbroglia, poi smette di imbrogliare, mette nei guai il suo amico spacciatore, migliora, inciampa, nasconde pasticche nei calzini, chiede alle amiche dell’asilo di fare pipì al posto suo per imbrogliare la madre. Ma è una droga immensamente più importante, per lei, la sua amica Jules. Se le tiene lo sguardo addosso o se lo toglie, se l’abbraccia o l’allontana, se dormirà o no a casa sua, se riderà con lei o con qualcun altro. 

 

Non c’è un droga più forte di questo, non c’è salvezza più forte del sentirsi gli occhi addosso. Non dei genitori, ovviamente, che in Euphoria sono così ciechi da sfiorare l’ebetismo: si accorgono di qualcosa solo quando una figlia è sdraiata per terra con la bava alla bocca, o quando un figlio ha quasi strangolato la sua ragazza e sta arrivando la polizia. Questi figli devono cavarsela da soli, sono i protagonisti, sono gli eroi e sono gli antieroi, il mondo è loro e in ogni flashback ci sono naturalmente i grandi sbagli dei genitori, distratti, falliti, severi, ipocriti, sottomessi, alcolizzati, abbandonati, pervertiti.

 

Ma la cosa stupefacente di questo affresco modernissimo, sofisticato, con tentativo di discesa nelle profondità della giovinezza umana e della sessualità in costruzione, con le immagini grandiose delle feste e delle giostre e della nuova socialità, è che niente è davvero cambiato. Almeno in America, almeno in Euphoria. Il moralismo, l’America anni Cinquanta sono ancora lì. Con i transgender e le foto di cazzi nei telefoni di tutti, con gli incontri online e le sniffate in bagno, con la verginità percepita come un oltraggio, il bacchettonismo è intatto, i ruoli sono ancora gli stessi di allora, quando le mogli aspettavano il ritorno a casa dei mariti con l’arrosto in forno, i capelli a posto e la bottiglia di gin sotto il cuscino del salotto. Le ragazze pon pon vogliono trovare marito, i ragazzi popolari vogliono una ragazza di cui non circolino video porno sui telefoni di tutti, i maschi vogliono possedere, le femmine vogliono appartenere.

 

Le ragazze piangono, gli uomini spariscono. Il centro della lotta è sempre lo stesso: possedere, umiliare, essere posseduti o essere umiliati. Essere degne di un uomo: questa follia è ancora intera.

 

E lui le dice: perché ti sei vestita come una troia? La differenza è che lei non va a casa a cambiarsi, ma scatena la guerra nucleare. La differenza è che nessuno osa più prendere in giro la ragazza grassa vestita di pelle. La differenza è che Jules, che ha fatto la transizione da maschio a femmina, dice: sono al cento per cento del mio potenziale, ma arriverà al centocinquanta per cento. Le altre hanno paura che sia quel momento adolescente e quindi disperato il momento migliore di tutta la vita, Jules invece ha grandi speranze.

 

Ma nel profondo di questi rapporti umani totalizzanti e poi all’improvviso irrilevanti, fatti di tradimenti e promesse per l’eternità (“odio tutte le persone del mondo tranne te”), c’è ancora qualcosa di primordiale e c’è ovunque la provincia americana. Lui che viene umiliato dai compagni di squadra deve sfogarsi su di lei nel sesso, poiché è stato sopraffatto ora deve sopraffare. Lui che va di nascosto nelle chat gay mette le mani al collo di lei che lo ha scoperto. Il più forte sul più debole: è una catena che non viene mai spezzata. Il capro espiatorio. La ragazza diffamata. La moglie tradita. La madre alcolizzata per troppe delusioni. La madre all’oscuro di tutto. La madre che non accetta che suo figlio si senta una femmina e lo abbandona perché si vergogna. La madre insignificante e passiva.

 

Lui le dice: perché ti sei vestita come una troia? La differenza è che lei non va a casa a cambiarsi, ma scatena la guerra nucleare

La rivoluzione delle ragazze passa di nuovo completamente attraverso il sesso e dentro qualcosa di oscuro che chiamano amore, di cui non conoscono le regole, a cui vorrebbero applicare regole antiche nel più moderno dei mondi. E allora inciampano, cadono, si arrabbiano, e si aiutano tra loro, mandano e ricevono foto di continuo.

 

“Mi aiuti a farmi un selfie? Vorrei delle belle foto di nudo parziale come se non mi fossi impegnata ma che potrebbero stare al Moma”. Ecco finalmente, dopo tanto tormento, la leggerezza e la genialità dell’adolescenza. Un’amica che ti scatta una foto mentre tu allunghi il braccio e fingi di essertela scattata da sola, con noncuranza. Un intero servizio fotografico di finti selfie, ci si può mettere un intero pomeriggio. E le classifiche delle foto dei piselli che i ragazzi mandano alle ragazze (o agli altri ragazzi, o nei siti di incontri). Divise in: orribili, terrificanti, accettabili. Quelle orribili hanno i detersivi di sfondo. Quelle terrificanti mostrano lo sporco nella stanza e il tentativo di ingrandire il protagonista della foto attraverso una voluta assenza di proporzioni. Quelle accettabili contengono una bottiglia di evian con cui prendere le misure e al massimo un lembo di camicia, un inizio di addominali (a diciassette anni non puoi non avere gli addominali). Il telefono non è un oggetto, è un prolungamento della mano, è una persona che contiene tante persone e tutti i rapporti umani, e la notte dorme sul cuscino accanto a te e la suoneria non è mai spenta, e la batteria non è mai scarica, e ai messaggi si risponde istantaneamente, e se un ragazzo ti chiede una foto nuda tu puoi decidere di mandargliela, ma devi sapere che non resisterà e la posterà da qualche parte, soprattutto se lui è un cretino e tu lo lasci perché è un cretino. “Non hai idea di quanto ti odio: sei violento, sei psicopatico e non sopporto il modo in cui mi fai sentire”, dice lei, abbracciando in lacrime questo immenso cretino, stringendosi a lui. In questo eterno rincorrersi, è l’unica cosa che conta: mi tocchi o non mi tocchi, mi abbracci o mi allontani. A sedici anni e a cento.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.