La Casa impazzita

Sarebbe stato più saggio godersi il successo ed evitare questa “Casa di carta 3”. Peccato

Mariarosa Mancuso

Rintracciati per l’uso sconsiderato di un telefono satellitare. Ma no! Ma chi ci crede? Sono entrati nella Zecca Reale a Madrid, infagottati nelle tute rosse stile Guantánamo, i volti coperti dalle maschere con i baffi all’insù di Salvador Dalì. Hanno stampato mucchi di denaro (“noi non rubiamo, siamo Robin Hood 2.0”). Hanno preso ostaggi, e sedotto l’ispettrice di polizia che seguiva il loro caso. Sono usciti con due miliardi e mezzo di euro in banconote non segnate (valgono bene qualche perdita umana, rubricata alla voce “danni collaterali”). Se li godono in posti esotici sconosciuti all’Interpol. Tutto benissimo, se non per un telefono satellitare comprato – sapremo poi – dai libici traditori. E usato con il più sciocco dei pretesti. C’entrano Tokyo e Rio, se servono altri dettagli.

 

Produzione spagnola per la tv generalista (lo showrunner chiama Alex Pina) “La casa di carta” è la serie non in lingua inglese più vista su Netflix. Ha avuto successo ovunque, radunando scontenti, resistenti, arrabbiati con il sistema. La maschera di Salvador Dalì ha sostituito nelle manifestazioni di protesta quella di Guy Fakes – dal film “V come vendetta”, tratto dai fumetti di Alan Moore. Era difficile resistere alla tentazione di ricominciare – anche se la storia aveva completato il suo arco narrativo. Il capitale deve rendere, dopo un successo grandioso quanto inaspettato. In questo caso, i personaggi con nomi di città (all’inizio erano otto, gente che non aveva niente da perdere) e un colpo impossibile.

 

Si ricomincia dal telefono satellitare, e quel che segue non è molto meglio. Almeno a giudicare dalle prime puntate di questa terza parte, che ne prevede otto. Già disponibili dopo un lancio che a Milano, in Piazza Affari, ha prestato al giustiziere con la maschera del surrealista spagnolo il dito eretto di Maurizio Cattelan. E quale potrebbe essere l’escalation, dopo la Zecca Reale di Spagna? Facile: le riserve auree che garantiscono il valore delle banconote medesime.

 

Le prime due parti – rimontate da Netflix per avere episodi di 50 minuti, e non quasi-film di 75 – erano a presa rapida sullo spettatore, ma viste di seguito verso la fine avevano qualche buco nella trama. Meno ritmo, troppe complicazioni a danno della credibilità. Sarebbe stato saggio godersi il successo, e pensare ad altro. Cosa si può aggiungere a una rapina miliardaria che riesce, a un crimine che paga, perfino alle storie d’amore nate durante la forzata convivenza (nessuno si ritrova ricco ma solo e infelice, nel suo rifugio, quindi incline alle imprudenze).

 

E dunque rieccoli, gli scolaretti agli ordini del Professore che scrive sulla lavagna “Benvenuti”, come la prima volta. Spiega che le riserve stanno nei sotterranei, e che il sistema di sicurezza al primo allarme allaga il caveau, servirà un sommozzatore. Per entrare, serve una manovra diversiva: dirigibili con la faccia di Salvador Dalì che sganciano banconote sulla folla madrilena. L’effetto è assicurato, al resto provvede l’aikido, arte marziale che il professore illustra così: sfruttare la forza del nemico per fare quel che da solo non riesci a fare. Per esempio, sgombrare l’edificio dagli impiegati.

 

La cronologia impazzisce, bisogna raccontare certi retroscena che ignoravamo. Si comincia 77 giorni prima dell’Ora Zero, si torna indietro a tre anni prima, si salta a meno 3 ore dell’attacco (grazie, scritte in sovrimpressione). Saper chiudere al momento giusto è un’arte poco praticata. Per incrudelire, hanno annunciato una “Casa di carta 4”.