Mondo Netflix

Mariarosa Mancuso

Come funziona la mega-ditta dove più che i dati da vecchi pubblicitari conta quel che hai guardato finora

Lo stato dell’arte – titolo alternativo: “Di cosa parliamo quando parliamo di Netflix” – viene ampiamente illustrato in un articolo di Josef Adalian sul New York Magazine. Il giornalista ha partecipato alle riunioni dirigenziali, ha raccolto storie di successo e di insuccesso. Ma neppure lui è riuscito a farsi dire quale serie Netflix ha avuto più pubblico, e quanti milioni di spettatori ha messo insieme. I dirigenti sparano solo l’ordine di grandezza, ipotecando con ottimismo il tempo libero degli abbonati e dei familiari: “Possiamo dire un picco potenziale di 40 o 50 milioni nel mondo”, buttano lì. “E’ capitato”, garantiscono. Ma bocche cucite sul titolo. Per certificare che nel mondo Netflix non esistono privilegiati, giurano di non dare i dati di audience neppure a Shonda Rhimes o a Ryan Murphy, strappati alla concorrenza con contratti milionari (più milionari di quelli firmati con la concorrenza). Non daranno i numeri neppure al regista da Oscar Guillermo Del Toro, arruolato per girare la serie horror “10 After Midnight”.

 

 

Diciamo “sì” in una Hollywood costruita sul “no”: ecco l’ultima vanteria. Malignamente si potrebbe dire che l’abbonato-spettatore se n’era accorto dalla quantità di film e serie che ogni mese vengono annunciati, di produzione propria o comprati belli e pronti come “La casa di carta”. Si parla di 1000 – mille – titoli originali per il 2018. Cifra da spendere: 8 miliardi.

 

Ted Sarandos, capo dei contenuti, non è il solo a dire tanti sì. Sotto di lui, hanno licenza di approvazione un paio di livelli gerarchici, con portafogli diversificati: chi può dare il via a uno show da 3 milioni di dollari non può fare altrettanto se il budget si aggira sui 10 milioni. Può farlo anche se Sarandos in persona scuote la testa: “non mi convince”. E’ accaduto con “American Vandal”, finto documentario d’inchiesta su un liceale accusato di aver disegnato cazzetti sulle auto di 27 insegnanti. Un certo coraggio ci voleva per difendere il progetto. Ostinazione premiata, sta arrivando la seconda stagione.

 

 

“Però risparmiamo sui pilot” insistono da Netflix, facendo saltare un passaggio tradizionale nelle televisioni via cavo e via antenna. Un tempo si sceglieva la sceneggiatura, poi veniva finanziato e girato l’episodio pilota, che aveva un suo tasso di mortalità (tra le serie soffocate in culla, “Le correzioni” dal romanzo di Jonathan Franzen, accantonata dalla Hbo dopo il pilot con Ewan McGregor e Maggie Gyllenhaal). Ragionamento – dicono – da buon padre di famiglia, applicato anche alle serie ottimamente recensite ma cancellate per scarso rendimento (l’intera baracca non rende, al momento, ma ci penseranno a mercato conquistato). Regge invece “Santa Clarita Diet” con Drew Barrymore, madre di famiglia zombie che preferisce le dita umane alle patate fritte (nelle Filippine vanno pazzi per la serie, mentre “Tredici” ha la stessa percentuale di spettatori in India e negli Usa).

 

Inside the Binge Factory” – ma la copertina del settimanale strilla “Netflix Is Watching You, Too”, se non ci spiano almeno un po’ non ci divertiamo – regala qualche parola chiave. “Completion”, per esempio: misura quanto velocemente gli spettatori consumano la stagione. Tra gli altri dati raccolti e preziosamente gestiti, gli episodi che vengono lasciati a metà (pessimo segno) e le scelte fatte dai nuovi abbonati nel primo mese. La mega-ditta con un piede nella Silicon Valley e l’altro a Hollywood garantisce che sesso, età, e altri dati da vecchi pubblicitari non contano. Conta di più quel che hai guardato finora.

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