Chi ride è complice. Così stiamo rivoluzionando la stand up comedy

Simonetta Sciandivasci

“Prendere sul serio i comici non è una buona idea”, dice Raimondo

Roma. “Credo di doverla smettere con la commedia”, dice Hannah Gadsby a pochi minuti dall’inizio del suo “Nanette”, lo spettacolo – comico, ça va sans dire – che sta avendo un grandioso successo su Netflix e sta facendo scrivere a mezzo occidente che una femminista lesbica ha appena rivoluzionato la stand up comedy. Come? Raccontando perché l’umorismo le ha rovinato la vita e facendolo in modo molto divertente e capace di indurre nello spettatore una specie di senso di colpa, portandolo a dirsi: “Davvero ho riso anche io di tutto questo, di tutte le cose che hanno fatto male a questa meravigliosa ragazza sul palco? Non lo farò mai più, non ne riderò più: chi ride è complice”. Come? Lo spiega Gadsby stessa (“Nanette”, per certi versi e in molte sue parti, è una specie di lectio magistralis): mentre uno scherzo consta di due parti, ovvero un inizio e un mezzo che altro non è che la battuta, le storie ne hanno anche una terza: l’epilogo.

  

Basta raccontare l’epilogo di certe battute, di certe ironie tossiche (ormai è tutto tossico: il latte, la mascolinità, la cultura, l’ironia) e dire cosa scatenano, cosa ispirano, in che modo legittimano la violenza o, almeno, come riescono a far sottovalutare gli allarmi, e s’ottiene questa rivoluzione della commedia. Nessuna battuta in “Nanette”: solo storie. Prima fra tutte quella che include le altre e dalla quale le altre si dipanano, cioè la mini bio dell’autrice: nata in Tasmania, Australia meridionale, un posto che lascia non appena dice alla sua famiglia di amare le donne, visto che il 70 per cento dei suoi concittadini pensa che l’omosessualità sia un crimine. “Io non odio gli uomini, ma mi domando come si sentirebbe un uomo se vivesse la mia vita”, dice Gadsby. Ci sono cose che s’è fatto necessario spiegare, prima di riderne, e magari una volta spiegate diventa impossibile o superfluo riderne. Qui sta il punto che scardina il modo in cui abbiamo inteso la stand up comedy e la comicità in generale, quando le credevamo capaci di disinnescare gli orrori deridendoli. No, dice Gadsby: la risata non solo non seppellisce, ma – spesso – vivifica i cliché, i pregiudizi, le appropriazioni culturali, perché non tutti sono pronti a leggere in una battuta politicamente scorretta una provocazione anziché una giustificazione, ma pure perché viviamo una condizione di costante derisione, cinismo, sarcasmo che ci distanzia da tutto.

    

Una delle cose su cui si è riflettuto spesso, negli ultimi anni, a proposito di millennial e nuove generazioni, è proprio l’incapacità di prendere sul serio le cose (la moda hipster non è stata nient’altro che questo: l’irrisione di tutto, specie di sé stessi, che ha indotto una dimissione pervicace del senso di responsabilità personale). Già da prima di “Nanette” era in atto una ridiscussione della comicità – di cosa possiamo ridere? Siamo certi di poter sfottere tutto? Siamo sicuri che le risate fustighino anziché conservare? Che le battute di Woody Allen abbiano disinnescato l’antisemitismo? Quando Louis C. K. è finito sotto il torchio del #metoo, si disse di lui che operava come una specie di troll. “Il politicamente scorretto è il mezzo e non il bersaglio”, dice al Foglio Saverio Raimondo, in opposizione a Gadsby, secondo la quale, invece, il politicamente scorretto della stand up comedy instaura un rapporto disfunzionale, persino sadomasochista tra pubblico e comico. “Prendere sul serio i comici non è mai una buona idea: in Italia lo abbiamo fatto e non è andata bene”, dice Raimondo, che è saggiamente convinto che queste ridiscussioni siano “scrupoli dettati dall’impotenza: un comico non può cambiare il mondo e l’umorismo è solo un modo per occuparsene”.

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