Monty Python (foto Paul Townsend via Flickr)

I Monty Python (su Netflix) reggono ancora dopo 50 anni

Mariarosa Mancuso

Anche gli sketch più assurdi mettono voglia di comici veri

Cannes 2018 – passerà alla storia come l’edizione senza Netflix, nel 2019 è probabile una decisa marcia indietro – si è chiusa con il film più sfortunato della storia del cinema. “Più sfortunato finora” preciserebbe il cinico Homer Simpson. Ma sarà difficile battere il record di Terry Gilliam, che osa sfidare la maledizione cinematografica – neanche Orson Welles riuscì a finire il suo “Don Chisciotte” – e affronta sciagure, catastrofi naturali, Jean Rochefort che fa smorfie di dolore quando sale in sella. Fin qui, i disastri riferiti dal regista medesimo nel documentario “Lost in La Mancha”, anno 2003.

    

  

Il cocciuto Terry Gilliam ha ripreso in mano il progetto, ha scritturato altri attori, ha litigato con altri produttori (Paulo Branco non voleva che il film andasse a Cannes, il tribunale gli ha dato torto). Qualche giorno prima del festival il regista ha avuto un infarto, ma ha giurato che si sarebbe ripreso. Così è stato. Non si è ripreso il film, ora intitolato (a rovescio, se guardiamo la lunga catena di sfighe) “The Man Who Killed Don Quixote”. Racconta un regista che torna nella Mancha per uno spot pubblicitario, là dove aveva girato anni prima il suo filmetto sperimentale. Scopre che il calzolaio scelto come Don Chisciotte non è più uscito dalla parte (e nessuno degli attori ha più le rotelle a posto). Sono Adam Driver e Jonathan Pryce, per contorno tutte le confusioni possibili tra la vita e il cinema. Esche per i critici che abboccano, aggiungono “visionario”, non pensano sia un dovere civico avvertire gli spettatori “lasciate perdere”.

  

Scottati dall’esperienza, siamo tornati dove tutto cominciò. Ai Monty Python e al loro “Flying Circus” (naturalmente su Netflix, 4 stagioni e 45 episodi dal 1969 al 1974). Terry Gilliam era l’americano del gruppo, l’unico non laureato né a Oxford né a Cambridge; si occupava delle animazioni che scandivano i siparietti – teste vittoriane scoperchiate, fiori, piedi giganteschi che annunciavano “E ora qualcosa di completamente diverso”.

  

Qualcosa di completamente diverso dal siparietto precedente, e dalla comicità televisiva britannica, solitamente piuttosto greve. La banda dei Monty Python, nei loro molti travestimenti, metteva in scena una gara tra le migliori morti della storia. Maestro di cerimonie un giovanotto imparruccato tale e quale a Mozart, dal forte accento tedesco (se chiudiamo gli occhi, pare di sentire Werner Herzog, voce fuori campo nei suoi documentari). I giurati alzavano la paletta come nelle gare di pattinaggio artistico, in ottima posizione Giovanna d’Arco e Marat.

  

  

Siamo tornati al “Monty Python Flying Circus” per un po’ di consolazione (non c’è spettacolo più triste di un uomo rovinato dalla propria ostinazione) e per constatare se gli sketch fanno ancora ridere dopo quasi cinquant’anni. Non solo i capolavori mai dimenticati. La partita di calcio tra i filosofi greci (in toga) e i filosofi tedeschi (in completo a tre pezzi, Nietzsche Kant e Wittgenstein): arbitra Confucio, guardalinee sant’Agostino e san Tommaso. O la gara a chi riassume più velocemente “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust.

  

  

  

Reggono, eccome. Reggono anche gli sketch più assurdi, su un gregge di pecore che vuole imparare a volare (si sentono tonfi come di pecore cadute, durante la conversazione). Sulla barzelletta che fa morire dal ridere, quindi viene usata come arma contro i tedeschi (gli alleati ne imparano una parola per volta, da pronunciare in trincea). Mette voglia di comici veri, non di gente che si accinge a imitare Salvini & Di Maio.

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