Terry Gilliam

L'autobiografia più spassosa del momento è quella di Terry Gilliam

Mariarosa Mancuso

Buttare via lo smartphone, darsi malati per qualche giorno, litigare con chiunque cerchi di distoglierci dal gratissimo compito. Bisogna farlo, per godersi l’autobiografia più spassosa del momento.

Buttare via lo smartphone, darsi malati per qualche giorno, litigare con chiunque cerchi di distoglierci dal gratissimo compito. Bisogna farlo, per godersi l’autobiografia più spassosa del momento. Con il titolo “Gilliamesque”, esce da BigSur: la divisione nordamericana della casa editrice Sur, nata da una costola di minimum fax per dedicarsi alla letteratura sudamericana (i piccoli editori hanno complicazioni che alle grandi concentrazioni editoriali sfuggono).

 

Per farla breve: Terry Gilliam di “Brazil”, dei Monty Python, del grande disastro che fu “L’uomo che uccise Don Chisciotte” (registrato a futura memoria con abbondanza di risvolti tragicomici nel documentario “Lost in La Mancha” di Keith Fulton e Luis Pepe) ha messo le mani nei suoi cassetti e fatto appello ai suoi ricordi. Ricavandone trecento illustratissime pagine, più cinque di generosi ringraziamenti “a quelli che mi hanno fatto diventare quel che sono”, più tre di indice analitico (ormai solo i comici sanno come fabbricare un libro con tutte le regole).

 

Da piccolo, nel Minnesota, il nostro guardava la tv a casa dei vicini, e teneva un quadernino contabile con le entrate (prato falciato, trovati per strada, dati da papà, lavaggio piatti, resto del droghiere) e le uscite (piscina, caramelle, fuochi d’artificio, “persi”). Aveva imparato dalla mamma, che tenne il conto dei soldi spesi per la degenza in ospedale, compresa la circoncisione del neonato Terry, pari a due dollari del 1940, su un totale di 76 e sessanta.

 

Al college, in California, la fonte di reddito erano i lavoretti procurati da papà, come il turno di notte alla catena di montaggio della Chevrolet. 52 automobili scorrevano ogni ora sulla catena di montaggio, al nostro toccava il lavaggio vetri: parabrezza finestrini e lunotto, giganteschi. Siccome “tutto è materiale”, come sostiene Nora Ephron a proposito dei tradimenti coniugali e di molto altro, le catene di montaggio viste e riviste nelle animazioni dei Monty Python vengono da lì. Non va meglio in uno studio di architettura, al lavoro sul progetto del Los Angeles Music Center, continuamente ritoccato in peggio per volere della committenza.

 

[**Video_box_2**]L’ingresso nel mondo dello spettacolo avviene come insegnante di recitazione a Camp Roosevelt, dove venivano parcheggiati per l’estate i figli delle celebrità, dagli attori Danny Kaye e Hedy Lamarr, al regista William Wyler. Il nostro progetta una messa in scena di “Alice nel paese delle meraviglie”. Tutto funziona benissimo fino agli schizzi preparatori. Una settimana prima del debutto, Terry Gilliam getta la spugna: i ragazzini non venivano alle prove, non c’erano i soldi per le scenografie. Il ricordo dell’insuccesso – ammette sinceramente – ancora gli fa venire gli incubi. Con il senno di poi, è un miracolo che non abbia deciso di tornare ai tranquilli piaceri della partita doppia.

Di più su questi argomenti: