Marlon Brando

Marlon Brando, ovvero la bestia (e un documentario)

Mariarosa Mancuso
Non fu un incontro pacifico. “Quel piccolo bastardo ha passato metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi; ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei”.

Non fu un incontro pacifico. “Quel piccolo bastardo ha passato metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi; ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei”. Il piccolo bastardo era Truman Capote, il gran bastardo era Marlon Brando, passarono insieme un po’ di tempo in Giappone, nel 1956, durante la lavorazione di “Sayonara” diretto da Joshua Logan. Ne uscì un’intervista da pubblicarsi sul New Yorker – si trova negli Oscar Mondadori, con il titolo “Il duca nel suo dominio”. Per meglio capire il disappunto dell’attore, va detto che il reporter non era munito né di taccuino né di registratore: aveva allenato la memoria, e riusciva a ricordare senza aiuti conversazioni anche lunghissime.

 

In privato, Marlon Brando accumulò trecento ore di registrazioni per uso personale. Analizzava il suo caratteraccio, ripensava all’infanzia schifa nel Midwest, ricordava i diktat della sua insegnate di recitazione Stella Adler, cercava di ipnotizzarsi da solo, ricorreva alla sua parte buona per governare quella cattiva. “Listen to me Marlon” – titolo del documentario di Stevan Riley in programma al Festival dei Popoli di Firenze, da ieri al 4 dicembre – è appunto un appello di Marlon a Marlon. A complicare le cose, anche il padre si chiamava Marlon Brando: un’intervista li mostra fianco a fianco, genitore spaccone e figlio che – si capisce – vorrebbe sprofondare. “Da piccolo mi picchiava, da grande me lo ritrovo tra i piedi”, si legge nel fumetto che sembra accompagnare la faccia di Brando jr.

 

Non esiste voce narrante, che per un documentario è spesso il bacio della morte (gli occhi li abbiamo, perché descrivere quel che si vede sullo schermo?). Racconta con la sua voce – non strepitosa – un Marlon Brando che pare risorto dalla tomba. Anche per colpa di un rendering digitalizzato e tridimensionale che mostra la sua faccia come ai tempi di “Superman”. Neanche questo giochetto l’ha inventato il regista: se l’era fatta fare l’attore negli anni Ottanta, con un programma chiamato Cyberware. Una specie di sinistro ologramma, per fortuna usato con discrezione. Il resto dei materiali è stato messo a disposizione dagli eredi, e a differenza di quel che di solito avviene in questi casi non ha niente del santino.

 

[**Video_box_2**]Marlon Brando parla di sé come di una bestia (intanto sullo schermo vediamo l’occhiata che gli allunga Blanche Dubois, in “Un tram che si chiama desiderio”, mentre si cambia la maglietta). Rievoca le tragedie familiari: il figlio Christian sparò al fidanzato della figlia Cheyenne, in una villetta che poteva essere solo a Mulholland Drive (è l’unica cosa finta, ricostruita in studio: fu comprata dall’amico Jack Nicholson che la demolì per cancellare i cattivi ricordi). Dichiara con sicurezza che se non avesse studiato recitazione avrebbe potuto intraprendere con successo la carriera del truffatore.

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