Helvetica

Mariarosa Mancuso

Tanta politica nel thriller svizzero parlato in quattro lingue che punta a farsi distribuire da Netflix

Prima che Netflix ne acquistasse i diritti per lo streaming mondiale, “La casa di carta” era una serie spagnola da tv generalista, somministrata a episodi settimanali. Astutamente spezzettata in due stagioni – serve talento anche per vendere, non solo per scrivere e produrre– ha creato dipendenza tra gli abbonati. Gli stampatori abusivi di banconote alla Zecca spagnola (guai a chiamarli ladri) sarebbero riusciti nell’intento? Saranno piaceri facili, sarà stato un accumulo di stereotipi, ma il meccanismo funzionava.

   

Confessato oppure no, il sogno degli showrunner non americani è farsi distribuire da Netflix, dopo il debutto in casa propria. Ci sono riusciti gli austriaci, con la serie in otto puntate su Sigmund Freud. Per sfruttare meglio il patrimonio nazionale gli hanno affiancato un detective e una medium, a caccia di un serial killer nella Vienna tra Otto e Novecento.

   

Potrebbero riuscirci anche gli svizzeri, grazie ai sei episodi una serie che la Rts (tv svizzera di lingua francese) sta girando in questi giorni. Ambientata a Palazzo Federale, sede del parlamento, si intitola “Helvetica” e sarà parlata in quattro lingue. Una è l’albanese, essendo la protagonista una donna kosovara che finite le pulizie nel palazzo del potere in famiglia torna alla sua lingua. Spiega Romain Graf, che con Leo Maillard e Thomas Eggel ha scritto e produce la serie: “In Svizzera vivono 300 mila albanesi, mi sembrava giusto dar conto della realtà”. Se lo dite a Matteo Salvini sviene all’istante, e per rianimarlo non servirà la bassa percentuale di disoccupati nella confederazione, al netto dei numerosi frontalieri.

   

Siccome i documentari sull’immigrazione, più o meno riuscita, non fanno salire gli indici d’ascolto, “Helvetica” sarà un thriller: una donna presa in un gioco complicato, tra mafia, servizi segreti, armi da vendere e da comprare. Sullo sfondo, la politica: gli showrunner hanno preso come come modello – e come storia di successo utile per dare il via alla produzione – la serie danese “Borgen-Il potere”. La prima serie non americana esportata nel mondo, proveniente da un paese di quasi sei milioni di abitanti dove la politica è più noiosa di quella dietro a “The West Wing” di Aaron Sorkin. Più noiosa anche della politica che nutriva la serie britannica (firmata Michael Dobbs e Andrew Davis) all’origine di “House of Cards”, la serie Netflix che ha inaugurato il modello distributivo “tutti gli episodi insieme, vedete voi quando riuscite a smettere”.

    

Otto anni fa, che nel mondo delle serie sono un’èra geologica, “Borgen” era insieme locale ed esportabile, insomma “glocal”. Raccontava il primo primo ministro donna della Danimarca: non certo una sprovveduta, ma le trame e gli sgambetti degli avversari si calcolano sempre per difetto. “Helvetica” ha finora un co-produttore belga, premiatissimo per il film d’animazione “La mia vita da Zucchina”.

 

Spulciando il curriculum di Thomas Graf (ha studiato a Ginevra relazioni internazionali e ha rinfrescato le sue conoscenze interrogando politici ed ex presidenti della confederazione) troviamo un altro esperimento interessante. La serie “Station Horizon”, girata nel 2005, è ambientata nel Canton Vallese e parlata in francese. Ma a guardare i paesaggi, il distributore di benzina, le motociclette, le giacche in pelle, i tatuaggi, le ossessioni del protagonista in libertà vigilata, sembrano gli Stati Uniti. Netflix l’ha già comprata, ma solo per i suoi abbonati americani. Di uno così ci possiamo fidare.

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