Alexander Coosemans, Natura morta con aragosta e ostriche, fine 1650 o 1660

Dormire sul declino

Maurizio Crippa

“La società signorile di massa” di Ricolfi non è la solita sociologia, è antropologia di un paese irreale

Oblomov viveva, nemmeno male, senza far nulla e senza alzarsi dal divano. Di rendita. Del resto aveva trecentocinquanta “anime” che producevano per lui. Se le società signorili del buon tempo andato sono poi andate all’aria è perché a un certo punto la rendita era finita. E ancor di più perché erano arrivati altri che producevano di più e generavano più ricchezza. In Italia il cambio della guardia tra le classi sociali che tradizionalmente detenevano una ricchezza di rendita e quelle che producevano un nuovo accumulo di capitale attraverso il salario o il profitto d’impresa è un fenomeno piuttosto recente, situato nei primi decenni del Dopoguerra. Poi qualcosa – ma non per magia – si è fermato. Molto presto. Già nel 1964 la proporzione tra popolazione che lavorava e popolazione che non lavorava si era invertita. Rapidamente, nel corso dei decenni successivi, la piramide si è capovolta: sono più gli italiani che non lavorano che quelli che lavorano. Ma chi non lavora – eccettuate percentuali ridotte di cittadini italiani (per gli stranieri conteggio a parte) – non è povero: vive, e bene, di rendita. Che sia da capitale o da pensione.

 

Siamo diventati, nel titolo provocatorio ma intuitivo del libro di Luca Ricolfi in uscita in questi giorni per La Nave di Teseo, La società signorile di massa: “Una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”. Perché il paradosso italiano, e in queste dimensioni solo italiano, è questo. Da quando si produce meno sono cresciuti la ricchezza e i consumi. Consumi non di base, ma opulenti: non per pochi, ma di massa: “Non l’auto ma la seconda auto. Non la casa, ma la seconda casa”. Più tutti gli optional come le vacanze lunghe, il fitness, la cura del corpo, il food. Però da alcuni decenni la possibilità di mantenere questi standard, la “dinamica della ricchezza”, è immobiliare, finanziaria: nasce dalla patrimonializzazione delle famiglie, tra le più alte del mondo.

  

Ricolfi è un sociologo, lavora sui dati, e non da oggi è fustigatore puntuto di una sinistra tragicamente attardata dietro a visioni economiche e sociologiche errate, o che non spiegano i fatti. Ma il suo libro, ed è il primo motivo di interesse, non è rivolto alla sinistra “che non capisce più il paese”, che deve tornare sul territorio e altre cure palliative della serie. E’ rivolto a tutta l’Italia e funziona come una rivelazione impietosa: costringe a guardarsi allo specchio da una prospettiva diversa. Attraverso un paradosso che tiene insieme la perdita di produttività, il record europeo di giovani Neet e l’evidenza dei “ristoranti pieni” di berlusconiana memoria.

  

Ma come è potuto accadere? Le tre condizioni della “società signorile di massa”, secondo Ricolfi, che le documenta con tabelle e grafici, sono: “1) il numero di cittadini che non lavorano ha superato il numero di cittadini che lavorano. 2) La condizione signorile, ovvero l’accesso a consumi opulenti di cittadini che non lavorano. 3) il sovrapprodotto ha cessato di crescere, ovvero l’economia è entrata in un regime di stagnazione o di decrescita”. Dovremmo essere la società di Oblomov, destinata a sicura estinzione. Eppure, per il momento, tutto sembra andare bene. Come è possibile? La spiegazione che Ricolfi ricava dai numeri è ancor più sorprendente e illuminante della diagnosi. Ci sono tre pilastri che reggono la società signorile di massa. Il primo, una ricchezza reale e finanziaria che però è stata accumulata dalle due generazioni precedenti. Due, la “distruzione della scuola” che ha prodotto generazioni inadatte a entrare nel mondo del lavoro, e che scelgono in molti casi una “disoccupazione volontaria” mantenuta dai genitori. Infine, ed è forse l’aspetto che il discorso sociale tende maggiormente a occultare, “la formazione di un’infrastruttura schiavistica”, ovvero l’esistenza di poco meno di tre milioni di persone (straniere) che svolgono i lavori che non facciamo e sorreggono a basso costo i consumi opulenti. Sulla ricchezza accumulata dai nonni si è detto. Le cose sorprendenti nel libro sono le altre due. Uno dei pregi di Ricolfi è che non ha, se non per lo stretto necessario, uno sguardo geografico (nord-sud) o peggio topografico (periferie, zone agiate). Fa innanzitutto un ritratto dell’esoscheletro della ricchezza. E traccia del paese un profilo psicologico, anzi antropologico.

  

E’ il caso dei giovani e della scuola. Un suicidio assistito, forse inevitabile: le “generazione di schiappe” sono il portato degli errori e delle ipertrofie dei boomer. Ricolfi sfida il pregiudizio citando Elsa Fornero: i giovani oggi sono choosy. Ma è una delle poche verità che la sinistra in Italia dovrebbe saper dire: i giovani (e sono sempre meno, se i conti di Ricolfi sono esatti) che non possono permettersi di vivere da “giovin signori” vanno a lavorare, o emigrano. Tutti gli altri possono permettersi di scegliere di non lavorare poiché l’aspettativa creata da un titolo di studio fornito al ribasso (dunque inutile nel mondo del lavoro, ma i giovani truffati dalla scuola non lo sanno) li mette in una situazione in cui appare più “razionale” vivere di rendita.

 

L’altro aspetto è ancora più interessante. Perché taglia con un colpo secco le retoriche correnti, a sinistra e anche a destra. Il “paraschiavismo”. Lavoratori stagionali, prostitute, colf, dipendenti in nero, facchini della logistica, della gig economy, muratori. Un esercito di 2,7 milioni di personequasi tutte senza diritto di voto, molti senza diritti tout-court – che genera surplus e servizi “senza i quali la comunità dei cittadini italiani non potrebbe consumare come fa”. Anche qui bando ai moralismi. Il punto di Ricolfi è chiaro, anche se non esplicitato. O si allarga questa “infrastruttura paraschiavistica” e si mantengono gli standard dei consumi signorili, oppure si prosciuga questa base della piramide, che è per il 90 per cento straniera, e allora si smette di vivere di rendita. Nel quadro reale di un paese che, guardato con gli occhi di Ricolfi appare quasi irreale (chi di noi si riconosce per intero in un rentier o in uno schiavista?), potrebbe anche non andare male. Ma Ricolfi cerca di guardare le cose per come sono. E fa la domanda, alla fine: si può continuare all’infinito così? In apparenza potrebbe funzionare, finché la rendita c’è, e del resto “la fine della crescita” è una teoria studiata. Il problema però sono il debito e la stagnazione: “Il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, la stagnazione diverrà declino. La società signorile è un prodotto a termine”, dice alla fine. E’ un sogno comodo, come il sonno di Oblomov, ma bisogna svegliarsi.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"