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Il Foglio 48ore

Il gioiello di Arnault. Cosa non luccica nell'operazione Tiffany

Fabiana Giacomotti

La colazione in gioielleria è costata cara per Lvmh e rischia di essere un po’ amara se non rilancerà il marchio in Europa e negli Stati Uniti (come ha fatto Bulgari). La Cina è il rifugio perfetto per il lusso

Come diceva qualcuno, un’immagine vale più di mille parole per cui, prima di sgolarsi sull’importante premio di maggioranza che Bernard Arnault ha pagato per l’acquisizione di Tiffany – quasi dieci dollari ad azione in più rispetto della quotazione di venerdì 22 novembre di 125,5 dollari per un roboante totale di 16,2 miliardi di dollari che verranno pagati cash entro i primi mesi del 2020 – vale la pena di guardarsi bene lo scatto che ritrae il presidente americano Donald Trump accanto al tycoon di Lvmh lo scorso 18 ottobre all’inaugurazione di una fabbrica Louis Vuitton in Texas: entrambi paiono interessati alla photo opportunity e si osservano reciprocamente, rilassati, mentre tagliano il nastro. Arnault però ride, gli occhi che sprizzano allegria, e possiamo assicurare che non accade spesso. È platealmente felice di trovarsi lì, in una terra che potrebbe dargli le stesse soddisfazioni dell’Asia; entusiasta di avere dato vita a un nuovo impianto di borsette e cinture in uno stato di ricchi vistosi, i conspicuous consumers di matrice vebleniana che a occidente sono sempre più rari.

  

Andate a leggervi gli ultimi report di Lvmh e vi sarà chiaro il motivo per cui, benché noto per essere un pagatore di prezzi amateur, da collezionista, quando vuole qualcosa, monsieur Arnault abbia pagato così tanto più del prezzo di mercato per un brand dall’appeal un po’ appannato come Tiffany, un posto dove sempre meno gente vuole andare a fare colazione, metaforicamente o anche nella realtà, se si considera che aprire bar e cafeterie nei negozi del lusso è diventata l’ultima moda. Il patron di Lvmh voleva ingraziarsi gli americani colpendoli al cuore, e ha trovato il modo per farlo aprendo generosamente il portafoglio con il supporto interno dello stesso team da cui, cinque anni fa, aveva comprato Bulgari e cioè Francesco Trapani e Alessandro Bogliolo, che di Tiffany sono attualmente e rispettivamente un rilevante azionista e il ceo. E questa è la prima ragione per quel premio da 9,5 dollari ad azione. La seconda è che il mercato dei gioielli e del cosiddetto hard luxury va bene, mentre Tiffany, che più solo gioielli non è da molto tempo ed è invece molto gioiellini d’argento e bibelot per neonati, non va benissimo, per ragioni anche storiche. Gli Stati Uniti hanno difficoltà con la nozione stessa di lusso, lo collegano solitamente e ancora al prezzo (“chille che costa ecchiù”, come nella marcetta di Renato Carosone) e da sempre preferiscono acquistarlo a Parigi.

 

Infografica di Enrico Cicchetti (clicca sull'immagine per ingrandirla)


       

Tiffany ci ha messo del suo, ma dopotutto se il tuo entry price attuale è di circa 120 dollari (catenina e cuore inciso in argento) e la tua storia racconta che sei nato nel 1837 come cartolaio di lusso, tenere fermo lo zenith sul business dei solitari di fidanzamento non è semplice, in particolare se la gente negli Stati Uniti si sposa sempre di meno. In Asia, il brand è ancora sinonimo di lusso e affidabilità, in Europa meno: nei primi sei mesi di quest’anno, Tiffany ha perso il 3 per cento dei ricavi netti fermandosi a 2,1 miliardi di dollari, che naturalmente sono sempre una bella cifra, ma non così bella se la si confronta con l’andamento in forte crescita del settore: il segmento del gioiello è aumentato del 7 per cento a livello mondiale, le previsioni congiunturali dei principali indici, compreso il “Consensus” di Altagamma, lo danno da più stagioni in aumento sostenuto, e persino i brand della moda che fino ad oggi avevano resistito al richiamo di pietre e preziosi si sono messi a produrre gioielli di lusso con successo. Gucci ha lanciato la sua linea di fine jewellery pochi mesi fa, spettacolare di forme, smalti, pietre secondo il gusto del direttore creativo Alessandro Michele che, negli anni, ha avuto modo di esercitarsi nel decorativismo anche grazie all’esperienza in Richard Ginori, mentre Giorgio Armani ha presentato la sua collezione di preziosi a metà novembre, e si dice che quei gioielli rigorosi e raffinati in oro bianco, diamanti, onice cabochon, realizzati grazie a un accordo produttivo non ufficiale con Damiani, siano già stati prenotati en masse dalle clienti invitate ad ammirarli.

   

La moda non sta vivendo il suo momento migliore, stretta com’è fra la demonizzazione del fast fashion, la richiesta di sostenibilità dei tessuti e di trasparenza delle fasi e dei metodi di lavorazione, o i puri e semplici guardaroba troppo pieni, quelli dell’occidente di sicuro. Superata la fase della sostenibilità e dell’etica nell’estrazione delle pietre e dei diamanti “puliti” che ha caratterizzato lo scorso decennio favorendo in parallelo la ricerca e la commercializzazione di diamanti sintetici (la cui richiesta da parte del mercato dovrebbe restare però limitata secondo le ultime previsioni di Bain almeno per i prossimi dieci anni), i gioielli hanno evidenziato invece la propria natura anti-ciclica e anti-crisi, caratterizzandosi ancora una volta come bene rifugio. Dunque, risultano pienamente giustificati e attesi i risultati del grande rivale di Arnault, il gruppo Richemont di Johann Rupert, secondo player del lusso mondiale con marchi come Cartier e Van Cleef&Arpels, che due settimane fa ha annunciato risultati in crescita del 9 per cento a cambi correnti per un giro d’affari di 7,39 miliardi di euro, e del tutto evidenti a attesi anche gli ottimi ricavi della divisione gioielli e orologi del gruppo Lvmh che, insieme con Tag Heuer, Fred, Zenith, comprende Bulgari, il marchio che più di ogni altro ha rafforzato le aspettative di Arnault sul settore. Lo scorso luglio, presentando la mostra sulla “storia e il sogno” della maison a Castel sant’Angelo e Palazzo Venezia che si è chiusa poche settimane fa con affluenze importanti, il ceo di Bulgari Jean Christophe Babin aveva annunciato “investimenti record per il 2019 sia in Capex sia in marketing”, contando “sull’ottimo andamento delle vendite”, in particolare in Cina che è ormai diventata il primo mercato mondiale per quasi tutte le griffe del gioiello: le proteste in corso a Hong Kong hanno solo leggermente rallentato le performance negli ultimi mesi. Il gioiello continua insomma a mostrare la propria natura anticiclica. E Tiffany no.

  

Bogliolo ha lavorato moltissimo, in questi primi due anni dalla nomina, alla comprensione e alla valorizzazione dei key point del marchio, per esempio il buon gusto, la solidità delle tradizioni e di un certo design che fa sì che un modello di monile sia lo stesso da 130 anni, le collaborazioni importanti, l’attenzione alla sostenibilità e alla trasparenza in un settore che, esaurito il famoso storytelling dei “diamanti sporchi”, è rimasto comunque parecchio opaco. Il problema resta la desiderabilità di Tiffany presso i giovani, la sua coolness. Lo straordinario brand value dato dal racconto di Truman Capote sessant’anni fa si è esaurito, e lo diciamo con cognizione di causa. Chiedete a un universitario ventenne, italiano o straniero, se abbia mai letto “Colazione da Tiffany” e novantanove volte su cento vi dirà di no. Di solito ignora perfino che all’origine del film di Blake Edwards vi sia un racconto. E in genere “si ripromette” di vedere il film, da cui emerge con molta ammirazione per i look di Audrey Hepburn pur senza aver capito come faccia a procurarsi quei vestiti di haute couture senza lavorare (Truman Capote fece una malattia per la sceneggiatura bacchettona e riteneva, a ragione, che la baronessina olandese a cui era stato affidato il ruolo di Holly Golightly ne avrebbe annullato il coté moralmente discutibile, che era proprio quanto i produttori volevano). Dunque, non è un caso che Netflix ne abbia acquistato i diritti di riproduzione di recente; sa che, dopo averlo visto, i ventenni se ne innamoreranno. Il problema è però e per l’appunto il primo passo, cioè farli cliccare sull’icona della pellicola; esattamente come farli entrare nel grande negozio sulla Fifth Ave o nei tanti monomarca Tiffany sparsi per il mondo. Tutti sanno dov’è, tutti conoscono il tipico color “verde Tiffany” delle confezioni e dei muri, ma pochi sentono la necessità di varcarne la soglia sotto i cinquant’anni d’età e in caso non avessero bisogno del sonaglino a orsacchiotto. Per tutto il resto, cioè per le pietre, i gioielli, i nomi di riferimento a livello mondiale sono altri.

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