Bernard Arnault (LaPresse)

Il Foglio 48ore

Il “lupo in cachemire” è diventato Re Sole

Ugo Bertone

Non solo gioielli e moda. Così l’impero di Arnault va da Parigi fino all’Asia

Et voilà. “Il lupo in cachemire” ha colpito ancora. Come aveva anticipato, a giugno, in un’intervista al Financial Times. “Siamo ancora piccoli – disse allora senza ombra di ironia Bernard Arnault, l’ammiraglio della corazzata del lusso Lvmh – è solo l’inizio. Il che è divertente: sì, possiamo andare oltre”. Fino a dove? Difficile immaginarlo ma è certo che nemmeno l’acquisto di Tiffany, l’operazione più costosa nella storia del lusso, può servire a placare la fame di prede del re del capitalismo francese, uno a cui, confessa senza falsi pudori, "piace essere il numero uno”. La conquista della gioielleria resa celebre dal cult movie di Audrey Hepburn, più famosa del mondo, finita sotto il suo controllo dopo 182 anni da single grazie ad un assegno da 16,3 miliardi di dollari, insomma, potrebbe essere solo una tappa nel grand tour verso la corona di uomo più ricco del mondo, una meta ormai quasi a portata di mano, dopo un anno davvero memorabile. Secondo la classifica di Forbes, Arnault ha già effettuato il sorpasso nei confronti del saggio di Omaha, Warren Buffett. E a giugno ha relegato Bill Gates alla terza posizione nel gotha. Ormai solo Jeff Bezos, il leader dell’e-commerce, può vantare una fortuna (124 miliardi di dollari) superiore a quella di monsieur Bernard, il figlio della buona borghesia di Roubaix, città nota un tempo per l’industria tessile, oggi solo per il pavé sulle strade della corsa più celebre che si disputa nell’inferno del nord. È da lì che viene il nuovo Paperone d’Europa, a capo di un patrimonio che, dopo i rialzi in Borsa per l’affaire Tiffany ha senz’altro superato la soglia dei 105 miliardi di dollari (pari a circa il 3 per cento del prodotto interno lordo francese) al traino della spettacolare ascesa delle azioni di Lvmh, cresciute di valore del 55 per cento nell’ultimo anno.

   

Grazie anche ad alcuni colpi da prima pagina: dall’acquisto della catena Belmond, 2,6 miliardi di euro per aggiudicarsi l’hotel Cipriani a Venezia, il Caruso di Ravello e altri gioielli sparsi per il mondo, da Città del Capo a Copacabana, oltre a due incrociatori fluviali in Birmania, all’inaugurazione di una fabbrica di borse in Texas, la sua seconda in territorio americano, alla presenza di Donald Trump, in un certo senso suo vicino di casa sulla Quinta Strada, visto che il quartier generale di Tiffany è a un passo dalla Trump Tower. E nel mezzo c’è stato il varo dell’alleanza con Rihanna, la rockstar che disegnerà le sue borse sotto le insegne della maison. Ma il bello, forse, deve ancora venire.

 

Presto, questione di mesi, sulla riva destra della Senna riaprirà la Samaritaine, il grande magazzino celebrato da Emile Zola, l’ultimo tempio del lusso parigino che Arnault, dopo un restauro durato 15 anni (e 750 milioni di investimento), sta per riportare ai fasti della Ville Lumière. Alla faccia dei gilets jaunes che, a giudicare dai dati di bilancio, hanno fatto il solletico o poco più ai conti della maison, capace di resistere anche alla guerriglia urbana di Hong Kong che ha investito la capitale asiatica dell’hard luxury (gioielli ed orologi) con il risultato di spostare lo shopping verso Shanghai, Tokyo o Singapore, dove le boutiques di Arnault, novello Re Sole, non mancano di sicuro. Per la gioia degli azionisti che, passata la febbre per la New Economy, hanno in parte sostituito la passione per Silicon Valley con quella per il lusso.

 

Nulla prospera più del lusso nella stagione d’oro dei ricchi sempre più ricchi, in rapida espansione grazie al boom dei milionari che spuntano dalle metropoli d’Asia, affamati della batteria di marchi messo assieme dal patron. Più di settanta, per ora, che coprono buona parte dei consumi nella popolazione più agiata o che aspira ad esserlo: vini e liquori, gioielli e orologi, profumi, moda, sia quella classica che con una nota di trasgressione. Troppo lungo citare la lista dei suoi successi. Si fa prima ad indicare i pochi fiaschi: la scalata abortita a Chanel, difesa con le unghie della famiglia del fondatore nonostante il pressing de “lupo” (“quando si compete – ha detto al Financial Times – non c’è tempo per la gentilezza”) . O la sconfitta subita dall’altra grande di Francia, François Pinault (ma i nostri rapporti sono buoni”) che lo battè sul filo di lana nella contesa per il controllo di Gucci. Una macchina da guerra che ha avuto il merito di intuire tra i primi le enormi potenzialità di una svolta culturale nell’economia globale che va al di là della moda.

 

È lui stesso a raccontare la sua illuminazione sulla strada del lusso che non poteva avvenire che a New York. Un tassista, al quale Arnault aveva chiesto cosa conoscesse della Francia, gli rispose: “Non ricordo il nome del presidente, ma so chi è Dior”. Una frase che aprì gli occhi all’ingegnere che lavorava nell’immobiliare del padre. Tornato in Francia, convinse la famiglia ad investire il patrimonio in un’impresa, la Boussac, vicina alla bancarotta, ma che disponeva di un gioiello: la maison Dior. Comincia qui la corsa verso il successo. Arnault, finito nel frattempo sotto la protezione di Antoine Bernheim, che sarà presidente delle Generali, impara il mestiere del finanziere: si libera di tutte le partecipazioni salvo Dior.

  

Intanto s’infila nel dissidio tra i due fondatori di Lvmh e, sfruttando le loro divisioni, estromette uno dei due, Henry Racamier, dalla società. È uno schema che Arnault utilizzerà più volte, facendo leva sul meccanismo della holding per dividere i nemici e allettare i possibili alleati. Ma non facciamo torto ad un industriale di talento che ha saputo costruire un sistema in cui far crescere stilisti e garantire libertà d’azione a molti uomini d’impresa. Monsieur Bernard, del resto, è un uomo di mondo che ama la musica, sposato in seconde nozze con pianista di rango Helène Mercier, che gli ha dato tre sei suoi cinque figli cui sta insegnando il mestiere. In attesa di nuovi business perché, oltre che di lusso, Arnault si occupa di filantropia, gestisce una delle più importanti fondazioni d’arte contemporanea, possiede quotidiani come l’Echos. E non è affatto alieno a nuove avventure. Voci insistenti parlano di un interesse per il Milan e di contatti, ripetuti, con Paul Singer, numero uno del fondo Elliott. Chissà, forse è solo un’illusione, al servizio dei sogni dei tifosi rossoneri. Ma con lui non si sa mai.

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