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E' stata la globalizzazione?

Luciano Capone e Matteo Matzuzzi

Davos, le élite, il sovranismo, i movimenti antisistema in Europa e America, il senso di colpa della classe dirigente. Davvero i guai del mondo sono stati causati dalla globalizzazione? Cosa c’entra la crescita del populismo con il processo alla società aperta. Indagine a più voci per capirne di più

Slowbalisation, ovvero l’amalgama di guerre commerciali, rallentamento del mercato cinese, calo degli investimenti esteri. L’ultima copertina dell’Economist mostra una lumaca che regge il mondo sulle spalle e la lumaca, si sa, procede lentamente. Slowbalisation è la crasi tra sluggishness (rallentamento) e globalisation (globalizzazione). L’antifona è chiara. Il settimanale britannico certifica il passaggio d’epoca: la globalizzazione ha trionfato per vent’anni, dal 1990 al 2010, e in questo periodo il mondo è cambiato profondamente: l’immigrazione è aumentata, il commercio globale è cresciuto. Poi, lo stop. “Il costo di trasferire beni da un paese all’altro ha smesso di diminuire in parte a causa dei dazi”, scrive l’Economist. Le multinazionali hanno capito che la stagnazione globale brucia molti soldi e i rivali locali spesso sono più capaci del previsto. L’attività economica si sta spostando verso i servizi, che sono più difficili da vendere all’estero. Ad esempio, un avvocato cinese non può svolgere la sua professione a Berlino”. E’ in questo clima plumbeo che la guerra commerciale promossa da Donald Trump ha messo solide radici, facendo proliferare i vari rami sovranisti così à la page in Europa: dall’Italia fino al coalizzato gruppo di Visegrád dell’est, relativamente fresco di ingresso nell’Unione ma a quanto pare già ben determinato a minarne le fondamenta. Nel lungo termine, però, si legge sempre sul settimanale di Londra, la globalizzazione è un processo irreversibile. C’è il problema di mitigarne i costi, è vero, ma la slowbalisation, cioè la soluzione offerta al problema, finirà solo per alimentare il malcontento tra gli stessi cittadini che oggi trovano rifugio nelle ricette securitarie fatte di muri, protezionismo e chiusure varie (confini, commerci, servizi).

 

L’epoca d’oro della globalizzazione è durata un ventennio, scrive l’Economist: dal 1990 al 2010. Poi, la crisi

Lo scorso 9 gennaio, sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia scriveva che “se l’ondata nazionalista-identitaria  si va tanto rafforzando in Europa è in buona misura per una ragione ovvia quanto spesso ignorata: e cioè per il fallimento delle élite tradizionali del continente. Questo fallimento è stato un fallimento ideologico-culturale prima ancora che politico, ed è stato dovuto soprattutto all’identificazione con la globalizzazione e la sua ideologia, divenute a partire dagli anni 80-90 del secolo scorso il massimo e quasi unico punto di riferimento, la vera prospettiva pratica e ideale delle élite occidentali”. Questa conversione alla globalizzazione, ha aggiunto Galli della Loggia, “è avvenuta per la presa d’atto della crisi, percepita come irrimediabile, dei tre pilastri sui quali l’occidente aveva realizzato la sua ricostruzione politica postbellica: a) la crisi religiosa del cristianesimo in progressiva ritirata di fronte all’offensiva della secolarizzazione; b) la crisi del Welfare State, cioè della redistribuzione del reddito nazionale pietra angolare della mediazione sociale praticata da parte di tutte le forze di governo a cominciare da quelle socialdemocratiche; c) la crisi dello stato nazionale messo nell’angolo dal multiforme internazionalismo egemone sulla scena mondiale”.

 

Abbiamo chiesto a economisti, politologi e filosofi, italiani e stranieri, di dire la loro sul tema. E’ stata davvero la globalizzazione a creare i sovranismi o il problema, forse più profondo e complesso, è un altro?

 

Ian Bremmer, fondatore e presidente di Eurasia Group. La globalizzazione è parte della spiegazione, ma ci sono molte altre ragioni. Negli Stati Uniti il populismo è una reazione alle guerre in Iraq e in Afghanistan; molti veterani hanno votato per Donald Trump. Le guerre hanno creato benefici per i ricchi e hanno aumentato le diseguaglianze tra il dieci per cento più benestante e il resto della società. Molte persone non vedono alcuna opportunità per sé e per i propri figli. Poi nel populismo c’è una forte componente anti immigrazione. Gli americani ce l’hanno con i messicani, i britannici con i polacchi e con gli immigrati dell’est Europa. Tuttavia, la tecnologia forse è la causa più importante. Leggiamo di continuo delle fake news, e questo ha un effetto politico. Kennedy ha vinto grazie alla televisione, Obama grazie a Facebook, e Trump grazie a Twitter.

 

“Arriverà presto una recessione e vedremo
se il populismo riuscirà
a sopravvivere”,
dice Ian Bremmer

Molti posti di lavoro si sono spostati dall’occidente ai paesi in via di sviluppo e per questo si è verificata una reazione contro la globalizzazione. Il mercato cinese è cresciuto molto e in America si è diffuso un forte sentimento contro Pechino. Per quanto riguarda i populisti, c’è una differenza tra le paure legittime degli elettori e le soluzioni offerte dai politici. Ad esempio, il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 stelle è una risposta legittima. La proposta della deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez di aumentare le tasse al 70 per cento per i redditi più alti temo invece che non sia una soluzione al problema. Se io fossi un democratico americano parlerei dei temi che più interessano i cittadini: l’istruzione, le politiche sociali. Questo non significa che i populisti abbiano la soluzione: molti membri dell’Amministrazione Trump provengono dalle stesse aziende che devono regolamentare. Le loro politiche non sono di grande aiuto per la gente comune. Tuttavia, i populisti hanno assestato un duro colpo all’establishment, che adesso dovrà prestare maggiore attenzione ai problemi dei cittadini. 

 

I partiti antipopulisti devono ancora capire alcune questioni che sono state sollevate dalla globalizzazione. E’ certo, però, che se le vecchie regole non si occupano più della gente comune, allora le si deve cambiare. Questo non significa usare il linguaggio xenofobo di Donald Trump e Nigel Farage: i democratici non devono prendersela contro i migranti. Devono esprimere delle soluzioni costruttive. Nel complesso, la globalizzazione ha funzionato e bisogna preservarne gli aspetti migliori. La vita di una persona al giorno d’oggi è molto migliore rispetto a 70 anni fa. Tuttavia, in questo processo si sono persi molti lavoratori, quindi non puoi più lasciare che l’economia sia governata “dalla mano invisibile del mercato”. Quanto all’immediato futuro, finora la crescita economica globale è positiva ma presto arriverà una recessione e vedremo se il populismo riuscirà a sopravvivere. Se i cittadini hanno meno soldi, saranno meno soddisfatti con i loro rappresentanti.

 

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Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni. “In buona sostanza si è imposta una narrazione, che è quella riassunta da Galli della Loggia, secondo cui la globalizzazione crea incertezza, spaventa, non produce benefici per consumatori e lavoratori così la gente si rivolge a quegli imprenditori della paura che sono i leader populisti. Non ci credo”. Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, è uno dei pochi in questo periodo storico che ha il coraggio di difendere pubblicamente il cosiddetto “liberismo”, quello che viene definito come “pensiero unico dominante” ma che in realtà non ha avvocati. Ha appena pubblicato per Marsilio il libro La verità, vi prego, sul neoliberismo che è l’unico saggio sul mercato con la parola “neoliberismo” nel titolo a non accusare questa ideologia di ogni nefandezza. “E’ molto comodo parlare male del neoliberismo, per ragioni facilmente comprensibili. In certi periodi bisogna trovarsi un nemico e il nemico ideale è quello che non risponde. Cosa c’è di meglio, come nemico, delle forze impersonali dell’economia? La mano invisibile non ti dà uno schiaffo, anche se provi ad amputarla. E’ invece molto più complicato fare i conti con tutta una serie di errori politici concreti delle classi dirigenti”. La gente però ce l’ha con il sistema, con la finanziarizzazione dell’economica, con un’apertura troppo rapida dei mercati globali e adesso chiede protezione. “Il cambiamento è stato guidato dall’offerta politica, non dalla domanda. E da noi si è legato a questa bellissima narrazione che stava bene a tutti, anche ai governi precedenti che l’hanno a lungo alimentata. E’ una narrazione vincente perché nessuno racconta l’altro lato della storia, e quando una narrazione diventa egemonica gli altri cominciano sempre chiedendo scusa, sì, però…”.

  

“Non c’è un’ondata uguale in tutto l’occidente: Donald Trump è una cosa e la Brexit un’altra. Ci sono però molte similitudini nello stile e nel linguaggio”

 

Però si tratta di un fenomeno che non è solo italiano, abbiamo avuto Trump in America, il M5s e Salvini in Italia, la Le Pen e Melénchon in Francia, la Brexit, Bolsonaro in Brasile e così via… “Non c’è un’ondata uguale in tutto l’occidente, Trump è una cosa e la Brexit un’altra e nessuna delle due ha a che fare con Salvini, quest’idea del corso inevitabile della storia è una scusa per non guardare agli errori politici”. Ci sono però molte similitudini nelle proposte e soprattutto nel linguaggio. “C’è sicuramente una comunanza nello stile dei nuovi entranti nel panorama politico, dovuta anche ai nuovi mezzi di comunicazione che padroneggiano meravigliosamente. Quanto più salti intermediazione, tanto più parli come la gente mangia, tant’è che nella comunicazione di Salvini il parlare e il mangiare sono sovrapposti. Si imitano gli stili che funzionano, ma l’idea che esistano fenomeni politici sincronizzati in paesi diversissimi per struttura economica, sistema politico e istituzionale è sbagliata”.
E in Italia come si è unita la comunicazione politica alla realtà politica ed economica? “Ha cercato di spostarsi oltremisura lontano dalla sfida delle riforme. Anziché pensare di attrezzare l’Italia alla globalizzazione, di modernizzare il paese, si è cercato di fare altro. Dal punto di vista di Salvini è comprensibile: hai dietro di te la storia del centrodestra, che tutte le volte che ha cercato di fare qualcosa non ce l’ha fatta, se gli altri ti lasciano parlare di altro non è mica meglio?”.

  

 

Sta di fatto che la globalizzazione e il liberismo sono considerati la causa dei mali della nostra società. “Innanzitutto va precisato che globalizzazione e liberismo non sono la stessa cosa. Una volta i trattati di libero scambio erano di sette-otto pagine, dicevano: gli scambi sono liberi e non mettiamo i dazi, e poi qualcosa di tecnico. Oggi i trattati considerati monumenti al liberismo selvaggio sono documenti come il Nafta o il Tpp da migliaia e migliaia di pagine: per scambiare gli stati armonizzano mutuamente le regolamentazioni, ma non è che queste scompaiano. Se si vuole dire che le regole sono scritte sotto dettatura di grandi interessi economici è verissimo, ma di solito sono interessi protezionisti e non liberisti”.
Tutti dicono che è colpa del liberismo, ma nessuno si dice liberista. “Quando si fanno i nomi dei neoliberisti responsabili di tutto, quali nomi si fanno? Reagan e la Thatcher, che non governano più da trent’anni. Ho una grande ammirazione per entrambi, ritengo siano stati i due più grandi leader del mondo libero del Novecento, però è difficile dire che i problemi dell’oggi sono legati a loro. Soprattutto perché ci sono paesi, come l’Italia e la Francia, che i Reagan e le Thatcher non li hanno mai avuti. Chi ha fatto quelle riforme da noi, Berlusconi? A me non sembra. La spesa sociale non si è affatto ridotta, eppure se arrivasse un marziano che non potesse accedere ad alcun dato sull’Italia e ascoltasse i media, in buona fede ne dedurrebbe che la spesa è tra il 5 e l’8 per cento del pil”.

 

“E’ molto comodo parlare male del neoliberismo, per ragioni che sono facilmente comprensibili. In certi periodi bisogna trovarsi un nemico e il nemico ideale è quello che non risponde

Quindi in Italia non c’è nulla di nuovo in questa fase politica? “No, anzi. Viviamo un’esperienza politica notevole e particolare. L’Italia è sempre stata un’avanguardia della degenerazione politica, ma tutte le nuove esperienze politiche hanno sempre avuto un carattere comune: puntavano alla modernizzazione del paese.

 

Il grande fenomeno politico italiano, da Mussolini a Berlusconi, dal centrismo a Prodi, passando per Craxi e Renzi, è sempre stato quello di voler portare il paese a sedersi al tavolo delle grandi potenze senza doversi vergognare. Poi fallivano, non ce la facevano o facevano cose sbagliate, ma quella era l’ambizione tipica. Stavolta è il contrario, prevale un altro tema: l’idea dell’eccezionalismo italiano, che noi non possiamo gestire il trasporto aereo come gli svedesi o il servizio postale come gli inglesi, perché siamo diversi e dobbiamo fare le cose alla strana maniera in cui siamo fatti. Questo è un governo che non ha alcuna promessa di modernizzazione, anzi è formato da una maggioranza che si propone come artefice di un’Italia totalmente introflessa, che si guarda indietro, che pensa che i suoi giorni migliori siano alle spalle e lì vuole tornare. Questa è una novità”.

 

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Erik Jones, direttore degli Studi europei ed euroasiatici  presso la Johns Hopkins University. Non penso sia corretto assumere che la globalizzazione sia la ragione principale per l’ascesa di nuovi movimenti politici. Una parte delle responsabilità vanno attribuite al fallimento della Democrazia cristiana e della socialdemocrazia – dove sono finiti questi partiti? Il fenomeno è stato anche causato dall’innovazione tecnologica. Se ti domandi perché molte persone fanno delle cose diverse al lavoro rispetto al passato, e perché i lavori al giorno d’oggi sono in dei settori diversi, allora dovresti partire dal problema dell’automatizzazione del lavoro e poi si dovrebbero considerare i cambiamenti che ci sono stati nella velocità dell’informazione e nella riorganizzazione del lavoro. Non potresti avere le città moderne e i grattacieli senza avere il telefono; non puoi avere una catena del valore senza un sistema di comunicazione avanzato e senza internet. 

 

L’unica novità in questo caso è la natura dell’innovazione, non il fatto che l’innovazione ti spinge a compiere degli aggiustamenti. Infine, non sono sicuro di potere individuare chi abbia negato il significato storico e culturale dei confini nazionali. Sicuramente, non sono stati né Charles De Gaulle né Ronald Reagan. Anche a sinistra Willy Brandt è stato criticato per avere riconosciuto le frontiere, non per averne negato l’esistenza. E’ vero che i politici hanno lavorato duramente per creare le condizioni per consentire alla divisione del lavoro di oltrepassare i confini nazionali, ma la maggior parte delle volte questo è andato a vantaggio di piccole comunità nazionali.

 

Infatti due economisti italiani – Alberto Alesina ed Enrico Spolaore – hanno scritto un libro sulla “dimensione delle nazioni” e hanno osservato che il libero commercio sposta l’economia globale verso paesi più piccoli e omogenei. In altre parole, la globalizzazione è più incline a incoraggiare dei movimenti secessionisti come quelli che abbiamo visto in Catalogna, Scozia e nelle Fiandre, piuttosto che incoraggiare l’eclissi dello stato nazionale. Dunque io credo che la premessa della tesi di Galli della Loggia sia sbagliata. La spiegazione di ciò che sta avvenendo è diversa da ciò che ci viene suggerito. E’ un’occorrenza regolare nello sviluppo democratico. Dovremmo esserci già abituati, dovevamo prepararci meglio per quello che sarebbe arrivato. Il modo in cui stiamo pensando a tutto ciò è sbagliato. I populisti ci sono sempre stati, a prescindere da come tu li voglia definire.

  

E poi, la globalizzazione non ha creato i populisti più di quanto non abbia creato il qualunquismo. Quindi la vera domanda non è cosa ha creato il populismo – che è un fenomeno perenne – ma cosa è successo ai custodi che avrebbero dovuto tenere i populisti lontano dalle leve del potere politico. Dove si trova il mainstream politico oggi e perché è così impopolare? Quando fornisci una risposta a questa domanda dovresti ricordarti che il mainstream è uno specchio dei tempi. I democristiani e i socialisti erano i “populisti” in Italia nel Novecento; adesso sono ciò che rimane del mainstream (e non solo in Italia). Silvio Berlusconi era un “populista” negli anni Novanta mentre oggi è la personificazione dell’establishment. Potremmo fermare la globalizzazione in questo momento ma ciò non farebbe tornare indietro i grandi movimenti politici del passato. Al contrario, un atto del genere probabilmente annienterebbe ciò che resta dell’establishment. Abbiamo tentato questo esperimento nel periodo tra le due guerre: non consiglio di ripeterlo.

 

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"La vera domanda non è cosa ha creato il populismo ma cosa è successo ai custodi che avrebbero dovuto tenere i populisti lontano dalle leve del potere"

Alberto Bisin, economista alla New York University. “Cosa vuol dire globalizzazione?” Per Alberto Bisin bisogna fare qualche precisazione sulla definizione. “Se vogliamo indicare le conseguenze dello spostamento della capacità produttiva all’estero, è un fenomeno oggettivo. India e Cina hanno cambiato negli Stati Uniti come in Europa la struttura della produzione manifatturiera, con effetti anche grossi. Se la globalizzazione è questo risveglio dell’apertura al mercato mondiale ci sono conseguenze innegabili, ma anche vantaggi enormi. Il mondo intero ci guadagna, e anche i singoli paesi, ma nei momenti di grosse transizioni qualcuno paga. E bisogna dare risposte a queste persone, senza però pensare di poter fermare la globalizzazione”. Molti imputano alla globalizzazione anche il progresso tecnologico. “Su questo agiscono soprattutto gli imprenditori della paura di sinistra, dicono che l’innovazione distrugge posti di lavoro, che moriremo tutti senza lavoro, in un mondo terrificante. Anche in questo caso, non è che non ci sia una parte di verità, possono esserci effetti negativi transitori, ma bisogna governarli”. La paura della disoccupazione tecnologica e la lotta alle conseguenze della iperproduttività sono la base ideologica del M5s, su cui è stato anche costruito il reddito di cittadinanza. Ma davvero l’Italia ha problemi da eccesso di produttività? “No, anzi il problema è l’opposto. I dati dell’Italia fanno tutti paura, ma quelli sulla produttività fanno mettere le mani nei capelli. Basta prendere qualsiasi grafico sulla produttività del lavoro o sulla produttività totale dei fattori per vedere che l’Italia è ferma, addirittura declinante, mentre Germania e ancora di più Francia vanno su”. Com’è possibile che si parli di problemi legati alla produttività e all’innovazione tecnologica se l’Italia è indietro e, all’interno dell’Italia, le regioni che stanno peggio sono quelle che stanno più indietro? “O il M5s ha una capacità potentissima di imporre la discussione pubblica, oppure bisogna capire come in Italia possa fare presa una cosa che non c’è. Una spiegazione possibile è proprio la paura di un fenomeno all’orizzonte, che non conosci bene, che non ti ha ancora toccato, ma che pensi che ti massacrerà quando arriva . E’ un po’ com’è successo per la Brexit, dove molte regioni hanno votato per il leave contro l’immigrazione anche se di immigrati ne avevano pochi o nulla”.
La paura e l’immigrazione. Questo è un altro aspetto legato alla globalizzazione. “E’ un effetto grosso. Sembra che spaventi l’elemento del mercato del lavoro, lo choc che abbatte i salari o genera disoccupazione. Il dibattito è abbastanza aperto, ma mi pare che la ricerca empirica – penso a economisti come Giovanni Peri e David Card – stia andando in una direzione secondo cui gli effetti sono relativamente minimi. Il cuore della questione è culturale. C’è la paura che il nero ti porti via la figlia, e anche dall’altra parte ci sono musulmani terrorizzati dall’assimilazione, dal bianco che si porta via le figlie. Ci sono anche qui problemi reali su cui si innesta però una narrazione che alimenta la paura della ‘sostituzione etnica’ e coinvolge anche persone con un buon livello di istruzione e tendenzialmente moderate”.

 

L’ondata, che va da Trump all’Italia, è stata tirata su dallo stesso vento? “C’è qualcosa di comune, ad esempio la fascia socio-economica che si vuol proteggere. E credo che Trump e il M5s abbiano individuato una fascia di mezzo, non necessariamente povera, ma che si sente colpita dalla globalizzazione. Dare risposte a questa gente è la cosa comune, ma la manifestazione della protezione offerta è diversa e segue i caratteri nazionali. In Italia ci arrivi con l’assistenzialismo, negli Stati Uniti con i tagli delle tasse alle imprese e i dazi. Qui dài il reddito di cittadinanza, ma lì se dici che lo stato viene a casa, ti controlla e ti trova il posto di lavoro, la gente reagisce diversamente”.

 

Bisin nel 2013 pubblicò un libro dal titolo Favole & numeri in cui smontava narrazioni economiche che negli anni successivi sono diventate dominanti. “Non sono mica un profeta. Vedevo girare un sacco di teorie campate per aria, utilizzando numeri con correlazioni strane per spiegare tutto. Metti giù due linee e dici: colpa dell’euro! Quello è un effetto della crisi economica, la gente ha cercato di spiegare cosa stava succedendo razionalizzando ex post la situazione a proprio favore. Prima del populismo sono venute fuori le favole. Alcune sono anche ben costruite, quella dell’euro lo è, e pure quella sull’immigrazione. Alla fine bisogna ammettere che hanno funzionato”. Hanno vinto le favole? “Sono narrazione dominante. Non bisogna arrendersi, c’è da battagliare, bisogna continuare a dire la verità e a spiegare le cose seriamente. Ma si fa una fatica enorme, perché tutto sommato è più facile inventare una favola che smontarla”.

 

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Gilberto Corbellini, filosofo. Chiunque desideri farsi un’idea quantitativa degli effetti della globalizzazione può scorrere le migliori statistiche, disponibili anche in rete – come Our World in Data o Human Progress. Compulsando – senza pregiudizi, grafici e numeri, scoprirà che nel mondo non ci sono mai stati come ci sono oggi e tutti insieme: più ricchezza/benessere; più libertà (politica, civile, economica); più democrazia (libere elezioni e stato di diritto); più salute (aspettativa di vita, meno malattie); più felicità (secondo i criteri dell’UN Human Development); più istruzione (anni di scolarità, livelli di alfabetizzazione); più intelligenza (effetto Flynn); più tolleranza (meno xenofobia, omofobia); più diritti (umani, animali, ambientali); più pace tra le nazioni (meno guerre); più razionalità (capacità di fare scelte economiche o etiche calcolate per realizzare un interesse personale senza danneggiare altri); più investimenti economici in ricerca e innovazione; meno diseguaglianze (non vale in generale, perché le diseguaglianze economiche fluttuano nel tempo, ma per lunghi periodi nell’ultimo secolo, in diversi paesi e a livello globale sono diminuite); meno torture e condanne a morte; meno criminalità (violenza, corruzione). Allora perché crediamo di vivere un tempo minaccioso? Intanto abbiamo ereditato dai nostri antenati un bias di pessimismo, nel senso che siamo spontaneamente pessimisti rispetto al futuro e su una scala nazionale o mondiale (a livello personale tendiamo a essere ottimisti al di là della ragionevolezza). Inoltre, abbiamo una preferenza emozionale per lo status quo, e percepiamo ogni cambiamento della situazione come una perdita. Questi elementi psicologici sono condizioni di partenza, che non sono necessariamente modificate dalla presentazione di prove che ne confutano la validità. Il bias dello status quo è uno dei più studiati per gli effetti che comporta nelle decisioni umane, sia razionali sia irrazionali, dagli psicologi cognitivi. Il problema con la globalizzazione è che sottopone la psicologia cognitiva e morale che abbiamo ereditato da antenati vissuti per millenni in gruppi isolati di alcune decine di individui, a sfide straordinarie. Queste sono state vinte, provvisoriamente in alcune parti del mondo, non solo grazie alla crescita economica e alle ricadute istituzionali del sistema politico liberale, ma con la diffusione dell’istruzione. Più specificamente grazie all’acquisizione di forme di ragionamento basate sul pensiero astratto e ipotetico. Lo psicologo James Flynn ha scoperto che l’intelligenza umana che sa usare queste forme di ragionamento è aumentata notevolmente nel corso del Novecento in occidente, e ora sta aumentando nei paesi in via di sviluppo. Flynn e numerosi psicologi dell’intelligenza hanno anche scoperto, attraverso studi empirici, che queste caratteristiche intellettive mettono le persone in grado, oltre che di sviluppare competenze che migliorano il successo professionale e l’innovazione, di capire il funzionamento e i vantaggi dell’economia di mercato o delle istituzioni democratiche. Non solo. Le persone che apprendono le capacità cognitive tipiche del pensiero razionale sono più cooperative e hanno meno pregiudizi verso gli immigrati.

  

L’idea del corso inevitabile della storia è una scusa per non guardare agli errori politici commessi (Mingardi). Sfatiamo un mito, la globalizzazione non ha causato un aumento delle disuguaglianze di reddito (Gros). Ma l’ideologia globalista ha imposto il dogma dell’apertura a tutti i costi (Reno)   

 

La globalizzazione ha fatto tirar fuori il meglio dal “legno storto dell’umanità”, come diceva Kant. Ma il legno rimane storto e, se viene lasciato a se stesso, le cose peggiori possono sempre tornar fuori. Quelle che accadevano quando i nostri antenati erano sudditi invece che cittadini, ed erano soprattutto analfabeti, poveri e violenti. Andrebbe fatta una riflessione sul fatto che quasi la metà – ma alcuni studi Oecd dicono anche di più – dei cittadini italiani si stima che sia funzionalmente analfabeta: non va oltre la comprensione elementare di un testo e non riconosce la presenza di informazioni contraddittorie. La paura, lo diceva già nell’Ottocento il poeta Ralph Waldo Emerson, “scaturisce sempre dall’ignoranza”.

 

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Giovanni Maddalena, filosofo. Sulla globalizzazione come fenomeno decisivo del fallimento delle élite occidentali Galli della Loggia ha sostanzialmente ragione, anche se il vero colpevole, come sempre, è l’ideologia di base che l’ha sostenuta. Su quest’ultima farei un’analisi diversa da quella dello storico. Non è vero, per esempio, che l’ideologia di base comprendesse il puro liberismo e la fiducia assoluta nei mercati. Uno dei problemi di questi trent’anni è stata la sistematica alterazione del mercato attraverso la collusione tra multinazionali, istituzioni ed enti di controllo. E’ quello che Riccardo Ruggeri chiama il ceo-capitalism, il capitalismo che si basa, invece che sul rischio degli imprenditori, sulla comunicazione dei manager, impegnati soprattutto a far apparire i dati in modo conveniente mentre il mercato viene aggiustato in altro modo. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il vero nucleo ideologico che ha portato alla globalizzazione malgovernata del ceo-capitalism è l’unione del liberismo con il progressismo hegelo-marxista e l’avanguardismo leninista. In fondo, il connubio liberismo-progressismo era il nucleo ideologico del Partito d’azione italiano, come ben ricordato da Ezio Mauro in una celebrazione di Repubblica qualche anno fa.

 

"Basta prendere qualsiasi grafico sulla produttività del lavoro o sulla produttività totale dei fattori per vedere che l’Italia è ferma, stagnante, addirittura declinante", osserva l’economista Alberto Bisin

Per uscire dalle etichette: la globalizzazione liberista si è sposata con la considerazione dell’economia come scienza esatta e fondamentale – un Nobel per l’Economia è stato dato all’inventore dell’algoritmo finanziario perfetto nel 1997 –; con l’idea che la civiltà abbia uno svolgimento progressivo inevitabile che definisce una direzione giusta e una sbagliata, una dentro e una “fuori” dalla storia (Obama docet), una che si può favorire con qualunque mezzo e una da ostacolare; con il pensiero che serva un’élite colta che guidi il cammino di una massa che per ora non capisce il proprio bene (ma lo capirà). Sono ovviamente troppi fattori in poche battute, ma su uno di essi vorrei fare una considerazione ulteriore.

 

Uno dei dogmi del progressismo globalista sosteneva senza discussione che il mondo fosse ormai radicalmente cambiato e che dopo il 1989 non ci fossero più le ideologie. Senza ovviamente pensare che questa fosse un’ideologia, tale dogma ha imposto una serie di leggi sul lavoro e sull’etica e un insieme di pensieri politicamente corretti – universalmente giusti secondo i loro proponenti – che tutti avrebbero inevitabilmente vissuto e presto condiviso. Evidentemente, il mondo non era così cambiato, e identità e ideologie non erano così finite. La ribellione alla globalizzazione, anche in nome di fenomeni antichi come il nazionalismo o la religione, oltre che del posto fisso e del diesel, dimostra che da tutto questo il popolo si è sentito spossessato, immiserito economicamente e forzato culturalmente. Lo sa bene un paese come il nostro dove ogni campanile difende il proprio dialetto, la propria sagra, la propria corsa di carri, spesso contro gli altri campanili circostanti. L’idea, intellettuale e progressista, che tutto questo fosse passato e che tutti volessero o potessero vivere guardando a tutto ciò con un sorriso di condiscendenza e senza passione di appartenenza si è rivelata ingenua e falsa. Ora, per non tornare agli antichi campanilismi e nazionalismi (o guerre di religione) occorrerà una revisione culturale di quell’ideologia e una globalizzazione più lenta e limitata, che rispetti un mondo molto più variegato di quanto le magnifiche sorti progressive avessero previsto.

 

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Daniel Gros, direttore del think tank Ceps. Populismo figlio della globalizzazione? Moda o tesi senza fondamento? Vista dal Ceps, il think tank sulle politiche europee di Bruxelles, la questione è tutto sommato semplice: si tratta di una tesi senza fondamento. “L’idea che vi sia una correlazione tra globalizzazione e successo dei movimenti nazionalisti e populisti è molto in voga ma non trova riscontro nei fatti”, dice Daniel Gros, direttore del Ceps che tra i vari incarichi ha anche quello di vicepresidente di Eurizon, la sgr di Intesa San Paolo. Gros la vede così: “Tra gli anni 60 e gli anni 80 c’è stata effettivamente una crescente liberalizzazione degli scambi commerciali a livello globale, ma dopo i governi nazionali hanno frapposto resistenze alla sua prosecuzione. In un certo senso i paesi che si sono veramente aperti alla globalizzazione sono quelli in via di sviluppo e la Cina. Altrove i processi di liberalizzazione si sono regionalizzati. La riduzione dei costi di trasporto e transattivi ha fatto cadere le barriere all’interno dei blocchi: nel blocco europeo dove si è formato il mercato unico, nel Nordamerica con il Nafta e in Asia. In tutte queste macroregioni la crescente apertura ha certamente generato benefici, basta pensare ai paesi dell’est Europa”. Il primo punto da prendere in considerazione dunque è che a causa delle resistenze politiche non c’è stata tutta questa globalizzazione a livello internazionale, almeno non nella misura che generalmente si immagina. Un altro mito da sfatare è che la globalizzazione abbia comunque causato un aumento delle disuguaglianze di reddito. “Qui ci sono differenze enormi tra i paesi anglosassoni, come Stati Uniti e Regno Unito, dove l’impatto c’è stato, e l’Europa continentale. Nell’Unione europea non c’è alcuna evidenza di un aumento delle disuguaglianze. E’ diminuito forse il reddito ma non le distanze tra le varie classi di reddito”.

 

Ci sono solo due punti sui quali Gros è critico relativamente al fenomeno della globalizzazione. Il primo è che “si è esagerato nel magnificare i benefici delle liberalizzazioni creando grandi aspettative”. Il secondo riguarda la libertà concessa ai movimenti di capitale. “Qui sì, c’è stata una liberalizzazione totale. Si sapeva che la completa mobilità dei capitali avrebbe comportato grossi rischi accanto a benefici, Ma ciononostante si è andati avanti lo stesso”.

 

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R. R. Reno, direttore del magazine americano First Things. Il populismo del Ventunesimo secolo in occidente ha molte sfaccettature. Non c’è dubbio che un elemento importante sia la ribellione contro la globalizzazione. Ma trovo più utile pensare in modo più ampio al secolo scorso. Quelle tra il 1914 e il 1945 sono state le decadi della catastrofe. In risposta a ciò, l’occidente adottò un progetto di ricostruzione culturale – a guida americana – costruito attorno agli ideali di una “società aperta”. Il progetto all’inizio era buono, ma negli ultimi anni è paradossalmente divenuto dogmatico: un’apertura obbligatoria, un permissivismo totale. L’ideologia globalista fa parte del dogmatismo.