Le sfortune del capitalismo italiano non vengono (solo) dall'estero

Renzo Rosati

La crisi Stefanel non è da imputare alla concorrenza cinese ma a scelte aziendali. Invece chi si apre al mercato globale resiste

Roma. Il 2 gennaio World confectionery group, del gruppo Investindustrial che fa capo all’imprenditore Andrea Bonomi, ha lanciato un’Opa totalitaria su Netra, multinazionale spagnola quotata a Madrid e leader europea nella produzione di cioccolato e cacao. Dieci giorni dopo sempre Bonomi ha portato in Italia la proprietà di Jacuzzi Brands, maggiore produttore mondiale di vasche di idromassaggio e centri benessere acquatici, con 500 milioni di fatturato nel 2018 e otto stabilimenti tra Europa e nord America e base produttiva a Pordenone. Assieme al marchio simbolo dei bagni di lusso, fondato nel 1915 in California da sette fratelli Jacuzzi emigrati dal Friuli e quotata a Wall Street, Investindustrial ha acquisito tutte le controllate. Eppure l’attenzione mediatica è calamitata dalla crisi di Stefanel, marchio della maglieria veneta giovanilistica, cresciuto in parallelo con Benetton, finché quest’ultima è diventata una holding globale diversificata dalle infrastrutture alla finanza, mentre Stefanel non si è staccata dalla mera formula del franchising monomarca, non reggendo alla concorrenza di colossi come Zara, crisi sfociata nel 2017 alla cessione ai fondi Oxy e Attestor, e pochi giorni fa, con perdite di 20,9 milioni su 7,5 di patrimonio netto, alla messa in esubero di 244 su 253 addetti.

 

 

Il tavolo Stefanel è convocato il primo febbraio al ministero dello Sviluppo economico, dove il titolare Luigi Di Maio parte del presupposto che “gli imprenditori sono prenditori”, mentre la grancassa sovranista ha già messo la vicenda in parallelo con la maglieria cinese a Prato, con la globalizzazione, con l’Italia “svenduta” agli stranieri, magari con già pronta la consueta soluzione della Cassa depositi e prestiti. Argomenti già usati per la Pernigotti, altro storico marchio del distretto dolciario di Novi Ligure, che è invece sempre un caso di incapacità dei fondatori di aggiornare il modello di business in un’area nella quale il made in Italy del cioccolato fa faville, con annessa saga familiare e nel 2013 cessione alla turca Toksoz. Anche qui, e con le imminenti elezioni in Piemonte, si invoca un decreto ad hoc, e la sinistra sindacale “perfettamente d’accordo con Di Maio nella guerra ai prenditori”.

 

Così come i cinesi non c’entrano nulla con Stefanel, a meno che non facciano lavorare i dipendenti in nero come peraltro molti italiani, la globalizzazione della cioccolata non c’entra con la Pernigotti, visti i successi globali di Ferrero, Venchi, Novi, e compreso ora anche Bonomi. Ma il sovranista collettivo continua a dare la colpa ai mercati aperti. Non si sogna di guardare agli esempi virtuosi di chi dall’Italia compra all’estero, grazie alla globalizzazione; come anche Marco Boglione, imprenditore torinese fondatore nel ’95 di BasicNet, oggi quotata a Piazza Affari, specializzata del recupero e rilancio di marchi storici di abbigliamento sportivo, come Kappa, K-Way, Jesus, Superga, Sebago. “Tutto grazie al modello market place figlio dell’esplosione digitale e della libertà di business” dice Boglione, riferendosi all’utilizzo estensivo dell’e-commerce. “Una rivoluzione pari alla musica rock”. E allargando il campo a settori più tradizionali si potrebbe anche guardare all a continua espansione, fino al 5 per cento, nelle assicurazioni Generali di Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio, e magari si dovrebbe rileggere la vicenda Pirelli, nella quale nel 2015 la cessione a ChemChina attirò critiche di ogni tipo a Marco Tronchetti Provera. Eppure l’azienda ha saputo mantenere in Italia il management, la ricerca (l’azienda è fornitore unico della Formila 1) e i prodotti ad alto valore aggiunto, delocalizzando l’area mass market. Il globalista Tronchetti è tuttora il ceo del gruppo, quinto al mondo, presente in 160 paesi, e nuovamente quotata a Milano.

Di più su questi argomenti: