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Non aver paura del futuro. La crisi di Stefanel spiegata con l'apertura modello Zara

Claudio Cerasa

La globalizzazione diventa un incubo se le aziende scelgono di rimanere piccine, litigiose, sotto capitalizzate. Ma diventa invece un sogno se il mercato aperto viene trasformato in una fonte di opportunità. Due lezioni a confronto

La storia che vi stiamo per raccontare si trova lontana dai grandi riflettori del dibattito politico ma è una storia importante che ci dà la possibilità di mettere a fuoco con un punto di vista ulteriore il tema affrontato oggi nel nostro monografico: i mali del mondo sono davvero causati dalla globalizzazione? La storia che vi stiamo per raccontare riguarda la crisi di una grande azienda italiana, la Stefanel, i cui amministratori pochi giorni fa, alla luce di una perdita pari a 20,9 milioni di euro dichiarata a settembre a fronte di un patrimonio netto di 7,5 milioni di euro, hanno comunicato ai sindacati la volontà di dichiarare 244 esuberi su una base occupazionale di 253 addetti. Il ministero dello Sviluppo economico ha convocato un tavolo tra l’azienda e i sindacati venerdì 1° febbraio e nei prossimi giorni c’è da scommettere che il sovranista collettivo, dovendo commentare la crisi di Stefanel, non perderà occasione per demonizzare la concorrenza, aggredire la globalizzazione, esaltare il protezionismo e dire frasi a caso sulla necessità di intervenire al più presto con i dazi in Cina e sull’urgenza di fare una retata tra le fabbriche dei cinesi a Prato. Per chi gioca con questa visione del mondo, la crisi di Stefanel non è legata a una mancanza di strategia da parte del management dell’azienda, o a una dimensione eccessivamente familiare della società, ma è legata alla sostanziale impossibilità per i vecchi campioni italiani di poter competere con aziende la cui manodopera viene prodotta a basso costo in un qualsiasi paese asiatico.

 

La vera svolta, per Zara, è stata quando l’azienda ha scelto di aprirsi al mondo. Trasformare la concorrenza in un punto
di forza, e non in un pericolo. Usare il mercato aperto per competere con il mondo e non temerlo per giustificare il proprio nanismo. La crisi di Stefanel ci ricorda molte cose ma ci dice prima di tutto che la globalizzazione è un incubo solo per chi non sa trasformarla in una grande opportunità

Il tic anti liberista e anti globalizzazione si porta molto nel mondo del cialtronismo sovranista ma come spesso capita tende a mostrare solo uno dei due lati del mercato aperto e tende a nascondere un dato di fatto che fa rima con una parola complicata da gestire per il populista collettivo: la realtà. La globalizzazione diventa un incubo se le aziende con capacità di crescita scelgono di rimanere piccine, litigiose, sotto capitalizzate e di non confrontarsi con il mondo. Ma diventa invece un sogno se l’apertura viene trasformata in una fonte di opportunità e non di paura. La storia di Stefanel, tra le altre cose, ci dice che una grande azienda italiana per restare tale non può permettersi di campare di rendita e deve fare quello che grazie al cielo riescono a fare un gran numero di imprese del nostro paese: internazionalizzarsi, espandersi, vaccinarsi dal nanismo industriale e confrontarsi con il mondo.

 

La storia di Stefanel, in altre parole, non è solo la storia di un’azienda che non è riuscita né a internazionalizzarsi né a diversificarsi ma è la storia di un’azienda che avrebbe potuto fare con anticipo quello che sono riusciti a fare giganti del retail come Uniqlo in Giappone, il cui fondatore Tadashi Yanai è diventato l’uomo più ricco del paese e il 33esimo uomo più ricco del mondo, e come Zara, in Spagna, che nel corso del tempo, grazie alla propria capacità di trasformare la globalizzazione in una grande occasione di sviluppo, ha iniziato a rosicchiare fette di mercato anche alle aziende italiane.

 

La storia di Zara è stata recentemente raccontata in un volume ben fatto (“Zara - Come si confeziona il successo”) pubblicato in Italia dalla casa editrice Egea e scritto da un autore spagnolo di nome Enrique Badia. Il volume ci ricorda che Zara è nata diciassette anni dopo Stefanel, 1976 contro 1959, e ci spiega in che modo il capo dell’azienda, Amancio Ortega, è riuscito nel giro di pochi anni a diventare uno degli uomini più ricchi del mondo, superando Bill Gates nel 2017. Badia spiega che la forza di Zara (Zara in realtà è parte della famiglia di una società ancora più grande di nome Inditex il cui ultimo bilancio, del 31 gennaio 2018, presenta un fatturato pari a 25,34 miliardi con un ebitda che si attesta a 5,3 miliardi) è stata integrare produzione e negozi secondo uno schema incentrato sulla velocità di risposta alla domanda del mercato. Secondo l’autore il segreto del successo non è stato solo “mantenere un lasso temporale fra la decisione di produrre un capo e il momento in cui viene messo a disposizione del cliente in negozio che finora nessuno è riuscito a imitare, ovvero una media di due settimane per tutti i negozi presenti nei 68 paesi in cui si trova, con una media inferiore rispetto a quella dei suoi principali concorrenti che si muovono fra i quaranta giorni di H&M e gli oltre sessanta di Benetton”. Ma è stato anche legato al salto di qualità compiuto da Zara e da Inditex nel momento in cui l’azienda ha scelto di internazionalizzarsi e di delocalizzare la produzione. “La lista di fiaschi causati dal non aver saputo gestire o dirigere i processi di espansione è lunga – scrive Badia – anche se è ancor più lunga quella delle compagnie che hanno affrontato crisi durissime per aver fatto un salto di dimensioni. Ma la forza di Zara è stata portare avanti un cambiamento indotto da operazioni di acquisto e concentrazione, cioè mediante acquisizione di altre attività o fusione di società indipendenti”. A questo, aggiunge l’autore, va aggiunto il fatto che la vera svolta, per Zara, è stata quando l’azienda ha scelto di aprirsi al mondo. “La delocalizzazione era un’opzione che Zara non poteva non prendere in considerazione, viste le enormi limitazioni che le imponeva il suo modello di risposta rapida alle richieste dei consumatori. Mantenere il ciclo di consegne ai negozi in due o tre settimane richiedeva, a sua volta, di mantenere la produzione di prossimità. In definitiva, era un vantaggio competitivo più importante e decisivo del prezzo, dal momento che i concorrenti non riuscivano a eguagliarlo, anche se poteva saltarne fuori qualcuno – e di fatto ce n’erano – capace di produrre gli stessi vestiti a un costo inferiore”. Trasformare la concorrenza in un punto di forza, e non in un pericolo. Usare il mercato aperto per competere con il mondo e non temerlo per giustificare il proprio nanismo.

 

La crisi di Stefanel ci ricorda molte cose ma ci dice prima di tutto che la globalizzazione è un incubo solo per chi non sa trasformarla in una grande opportunità.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.