Roma il 9 marzo 2020, rivolta nel carcere di Rebibbia: detenuti incendiano oggetti dentro al carcere fuori i familiari protestano (foto Cecilia Fabiano/LaPresse)

Il Coronavirus dietro le sbarre. Le voci dal carcere

Claudio Paterniti Martello*

La pena non affligge solo chi sta dentro. Lettere, testimonianze e richieste di aiuto di parenti e detenuti, molti ancora in attesa di giudizio

L'otto marzo 2020 il presidente del Consiglio ha messo fine con un decreto ai colloqui tra detenuti e familiari: troppo alto il rischio di contagi da nuovo Coronavirus. Nelle carceri delle regioni già sofferenti a causa del virus, i colloqui erano stati vietati o fortemente ridotti nelle settimane precedenti. Come anche le attività scolastiche, gli ingressi dei volontari, le attività sportive o la formazione professionale: insomma, tutto quello che a fatica e in parte riempie il grigio quotidiano detentivo.

 

Le malattie infettive sono da sempre un grosso problema, in carcere: affollamento e scarse condizioni igieniche ne fanno un ottimo terreno di coltura per ogni virus. Si capisce dunque che si sia cercato di correre ai ripari. Ma sarebbe stato più previdente informare parallelamente i detenuti di ciò che accadeva fuori e dentro, in maniera capillare e costante; così come aumentare da subito frequenza e durata di telefonate e videochiamate. E concedere la detenzione domiciliare o la liberazione anticipata ai tantissimi a cui restavano – e restano ancora - pochi mesi da scontare, e che sono rimasti in gran parte dietro la porta. Queste misure sono state prese in maniera tardiva. Si aggiunga la mancanza di mascherine e gel disinfettante e l'assenza di controlli sanitari sugli operatori penitenziari e si capirà meglio come si è arrivati alle rivolte dell'otto e nove marzo e quali sentimenti vanno per la maggiore nelle galere e tra i familiari di chi ci sta dentro.

 

Ad Antigone, l'associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, nelle ultime settimane, sono arrivate centinaia di segnalazioni: madri, mogli, figlie e compagne di detenuti ci hanno inondato di mail, messaggi su Facebook, lettere e telefonate, chiedendoci informazioni su come tirare fuori i loro detenuti e rendendoci partecipi di paure e angosce.

  

Hanno iniziato a farlo prima delle rivolte. Ancora a inizio marzo ci si preoccupava del tempo lungo a venire senza poter toccare e vedere mariti, figli, compagni e fratelli: “Oggi è il 5 marzo: da due settimane non possiamo vedere i nostri cari e la situazione sembra possa estendersi a tutto il mese di marzo”. Tutto marzo sembrava troppo, all'inizio. “Siamo consapevoli dell’elevatissimo rischio di contagio in carcere; chiediamo però che si possa trovare un modo per permetterci di continuare a coltivare i nostri rapporti con i detenuti”. Chiedevano più telefonate, e che si potesse usare Skype, della cui implementazione l'Amministrazione penitenziaria fa da tempo gran vanto. C'era già allora – come c'è ancora adesso - la paura che i propri detenuti si ammalassero di Covid. Come si fa in effetti a mantenere la distanza in un posto in cui si è stipati come sarde in padella? “Buongiorno, sono la moglie di un detenuto rinchiuso nella casa circondariale di X (i nomi delle persone e dei luoghi sono stati omessi, per garanzia e rispetto alla privacy di chi ha scritto ad Antigone, ndr). Vi chiediamo aiuto, in una cella ne sono 6-7, ognuno di loro soffre di una patologia grave. Se il virus dovesse entrare lì come si risolve?”. Già, come? Problema di difficile risoluzione, in un carcere in cui il tasso di affollamento si aggira attorno al 200 per cento. Lo stesso vale ovviamente per altri istituti, anche se non per tutti: “Mio marito ha problemi di salute, il suo carcere è molto piccolo ed ospita il doppio dei detenuti ke di regola dovrebbero esserci. Ne basterebbe uno per contagiare l'intero carcere”.

 


Rivolta nel carcere di Rebibbia, fuori i familiari (foto Cecilia Fabiano/LaPresse)


   

La pena non affligge solo chi sta in carcere. Mogli, figli e compagne la subiscono senza neanche l'accusa di un reato. Un tribunale italiano, tempo fa, contestò la decisione di un giudice che aveva negato a un detenuto di andare alla prima comunione di suo figlio: si ledeva in quel modo il diritto del minore, che non aveva colpa. Anche oggi l'apprensione dei bambini torna in ballo. “Ho un bimbo di 3 anni che per la sospensione dei colloqui non vede suo padre già da un mese. E chissà ancora x quanto tempo non potrà vederlo. Abbiamo bisogno di aiuto. Nessuno ci ascolta, siamo disperati, preoccupati x i nostri cari. Ogni giorno la situazione peggiora. Nn vi chiediamo molto, vi prego... AMINISTIA INDULTO SCONTO DI PENA QUALUNQUE COSA ESSA SIA”. Non chiedeva neanche poco, a un Parlamento che ha bandito quelle parole dal suo vocabolario e che è composto in buona parte da forze politiche che sul “Tutti in galera!” hanno costruito larghe fortune. “Sono una moglie e madre estremamente preoccupata che nessuno ascolta. Mio marito prima di essere un detenuto è padre di 2 figli piccoli, che non vede da oltre un mese e che non vedrà per ancora molto tempo. Sono l'unica sua forza. Fra 6 mesi potrebbe chiedere l'affidamento in prova, non gli manca tantissimo. Non ci sono in previsione misure alternative per quelli come lui?”. Non ce ne sono. Le timide misure che il Parlamento ha adottato per far fronte all'affollamento carcerario si sono limitate a snellire le procedure con cui alcuni detenuti potevano già da prima chiedere di andare a scontare il residuo pena a casa, se basso (fino a 18 mesi). Molti detenuti non possono però neanche chiederlo: quelli anche solo sospettati di aver partecipato alle rivolte, ad esempio, o chi è in carcere per reati gravi, i cosiddetti 4-bis. Anche se prossimi alla scarcerazione – metti fra un mese – devono restare dentro fino alla fine. I parenti ci speravano: “Buongiorno, volevo ringraziarvi e stimarvi per tutto quello che state facendo. Volevo capire se per il mio detenuto c’era qualche speranza di uscire prima, visto che la sua fine pena è tra due mesi esatti! Ha il 4 bis, è a X”.

 

I primi a sperare, a ragione, sono stati quelli soliti uscire dal carcere grazie ai permessi dell'autorità giudiziaria. Nell'attesa che il Parlamento si pronunciasse, si aggrappavano a voci di corridoio che li volevano presto a casa: “ieri mio marito - sta a X - mi diceva che gli hanno detto che stanno pensando di far uscire chi lavora all'esterno. Ma è tutto poco certo, si tratta di voci di corridoio”. Il decreto Cura Italia, attualmente in fase di conversione, ne uscirebbe meglio se si decidesse di mandarli a casa davvero, quelli che il gergo penitenziario chiama permessanti.
 

E' andata meglio ai cosiddetti semiliberi, quelli che di giorno lavorano fuori e la sera tornano in carcere. Alcuni tribunali di sorveglianza si sono fatti in quattro perché scontassero la pena a casa almeno fino al 30 giugno. E' successo a Milano, dove ci si è messo di mezzo persino un incendio, al settimo piano del Palazzo di Giustizia. Ma non dappertutto: a volte i magistrati hanno preferito seguire l'irresponsabile strada già segnata da governo e Parlamento, negando le licenze. Allora la mezza libertà si è tramutata nuovamente in prigionia completa. Come al marito di una signora che ci ha scritto sconsolata: “Buongiorno, mio marito è detenuto in regime di semilibertà. Sabato 22 febbraio, al rientro serale, gli hanno comunicato che dal giorno dopo non sarebbe più uscito, nemmeno per andare al lavoro”. Tempo dopo il governo si è deciso a mandarli a casa. L'impatto sistemico è però limitato, essendo questi detenuti tutt'al più 800 (ed essendo rimasti peraltro in buona parte carcere, nonostante il decreto).

   


Rivolta dei detenuti al carcere San Vittore a Milano (Foto Claudio Furlan/LaPresse)


  

Nell'ultimo mese e mezzo sono uscite circa 4.000 persone: la metà per l'intervento del governo, l'altra metà a legislazione pre-vigente: potevano uscire anche prima, ma c'è voluto il virus perché si attivasse la magistratura. Chi è rimasto dentro (più di 54.000 persone, a fronte di meno di 47.000 posti) cerca mascherine e gel idroalcolico, come chi sta fuori. E pensare che all'inizio dell'epidemia in diversi istituti raccomandavano agli agenti di non indossarle, per non far preoccupare i detenuti: “Nel carcere di mio marito hanno messo il disinfettante nei corridoi, ma le mascherine le hanno vietate”. A vedere il personale troppo imbardato si sarebbero sentiti infetti. I parenti, quando ancora si accettavano pacchi, cercavano comunque di farle entrare: “Nel pacco io una gliel’ho messa, ma gli agenti all’ufficio preposto non erano certi che avrebbe potuto utilizzarla”. Il carcere non ha mai tollerato che da fuori entrassero troppe cose: le mascherine non fanno eccezione.

  

Ad angosciare i parenti non c'è solo il virus. Anche a pensare a una giornata senza scuola, senza colloqui e senza volontari si stringe il cuore: “mio marito è a X. Sono molto preoccupata che il virus si possa diffondere, ma altrettanto preoccupata dell’abbandono e dell’ulteriore isolamento che stanno vivendo i detenuti in questo momento”. Almeno le telefonate potrebbero concederle, lamentavano a inizio marzo: “Io sono consapevole che c'è un'emergenza sanitaria. Però qualche telefonata in più non farebbe che dare tranquillità sia ai nostri cari che a noi famigliari, soli, confusi e frastornati”. Oggi si telefona con una certa frequenza, per fortuna – seppur non dappertutto. In molti istituti si videochiama con gli smartphone. Ogni carcere ne ha un certo numero e a turno i detenuti vi accedono. Speriamo che il Coronavirus ci lasci almeno questo, di positivo: i telefonini in carcere.

  

Assieme alle telefonate arrivano le voci di contagi, continue e spesso false.“Mio marito è in carcere a X. Fino a oggi era tutto sotto controllo, ma ora hanno saputo che due persone sono positive, e i detenuti si sono impauriti. L'unica misura che è stata presa sa qual è? Nessuna. Mio padre soffre per i suoi nipoti, che sanno che il loro nonno sta costruendo una barca...”; “Mi ha chiamato il mio compagno dicendomi che questa mattina hanno messo due persone positive in quarantena. Ma non esce la notizia ufficiale di coronavirus: perché?”. A volte sono vere: come quella arrivata da un carcere campano: “Mio fratello da una settimana si trova in isolamento in infermeria con febbre alta, tosse, dolori e senso di vomito. Da quattro giorni non mangia. Ha appena chiamato al telefono, e piangendo ci ha chiesto di aiutarlo. Da ieri pomeriggio nessuno gli misura la febbre. Stanotte aveva freddo e non venendo nessuno a misurare la febbre si è messa una supposta di Tachipirina”. Qualche giorno dopo sono riusciti a fargli il tampone: positivo, trasferito in ospedale.

  

Le notizie dal carcere sono angoscianti, ma ancora più angosciante è l'assenza di notizie. Molte mogli e sorelle, dopo le rivolte di marzo e i trasferimenti che le hanno seguite, sono rimaste in attesa che il telefono squillasse. Attesa vana, a volte perché nel nuovo carcere non avevano soldi per telefonare. Altre volte per ragioni da accertare. “Mio fratello era detenuto a X. Dopo le proteste, il 9 marzo, l'hanno portato a X. Siamo al 25 marzo e ancora non ho sue notizie”. “Buongiorno, da X siamo ancora in attesa di chiamate. Dall'8 marzo non ho ricevuto nessuna chiamata”. “Hello, my husband was in a Sicilian jail, but now someone told me that He's in X. I'm in Pakistan and I'm very scared”. Il silenzio è più pesante quando si sa il proprio figlio malato: “Mio figlio ha precedente de malattie pulmonare, i suoi pulmones no resistirano a questo virus. No lo sento dal 8 de marzo. 9 mesi fa ho perso mio figlio più grande. No voglio perdere mi otro figlio. Vi prego, aiuto. Voglio sapere almeno si sta bene”.

 

Capita anche che non chiamino perché hanno paura di uscire dalla cella. Come quel detenuto affetto da una malattia autoimmune che gli impedisce, così ci dicono, di assumere farmaci: “Il ragazzo ormai vive nel terrore di ammalarsi perché sa che non può prendere nessun farmaco. Vive rinchiuso nella sua cella, evita pure di telefonare a casa tutte le volte che vorrebbe perché ha paura pure di prendere il telefono in mano e sta sviluppando attacchi di panico, tanto che è stato visto dallo psicologo. Vi prego, potete fare qualcosa?”.

 

Com'è noto, un terzo delle persone in carcere aspetta che un giudice pronunci parole definitive sulla innocenza o colpevolezza. Nel frattempo, con la Costituzione in mano, invocano la presunzione di innocenza: “Con che coraggio i magistrati ci confinano qui senza avere la minima certezza di colpevolezza? E' una vergogna per il nostro sistema legislativo, che a livello mondiale è molto riconosciuto e poi si perde in un bicchiere d'acqua”.

  

Dovrebbero uscirne almeno 7.000, perché capienza e presenza facciano pace. Di più, se si vogliono spazi sufficienti per gestire gli eventuali positivi. Ma le misure di scarcerazione trovano forti opposizioni a livello politico. Si sventola lo spauracchio sempreverde dei criminali all'assalto della società. Alcune lettere mostrano, se ce ne fosse bisogno, la reale caratura criminale della gran parte di chi sta in galera. “Il mio ex marito si trova a X da un anno per cose stupide. Sbagliate, ma stupide, tipo aver piantato due piantine più di 10 anni fa, così, per gioco, a casa, e poi perché aveva messo dei telefoni in vendita che poi non ha inviato, prendendosi la caparra. Sbagliato, ok, ma sta pagando, ha pagato. Assurdo che per una cosa così debba fare ancora altri 30 mesi. Io sono disposta a farlo venire a casa per stare con suo figlio che non vede da un anno, che ha 15 anni e ha problemi (tant'è che ha la 104)”.

 

A volte i Tribunali ci mettono un po', a chiedere il conto. Ma poi arriva: “Buonasera, sono la figlia di un detenuto napoletano. Mio padre era in affidamento, da 5 anni non commetteva più reati. I reati per cui è stato condannato riguardavano la vendita di cd musicali masterizzati. Da 5 anni lavorava: collaborava con una squadra di calcio dilettantistico, come magazziniere. Io ho sempre avuto un rapporto conflittuale con lui. Studio giurisprudenza e l'ho sempre condannato, anche a casa, per i suoi sbagli. Ormai però aveva cambiato vita. Purtroppo ha avuto una condanna definitiva per una cosa vecchia, dopo una difesa d'ufficio di cui non avevamo conoscenza. E' stato portato nella casa circondariale di X dopo ben 7 anni in cui non metteva piede in un carcere. Per tutta la famiglia è stato un trauma”. Certo, non poter mandare neanche un pacco con delle lenzuola, di questi tempi, non è cosa da cristiani: “Dall'ultima telefonata non abbiamo più notizie. Abbiamo appreso delle varie rivolte dai media ma non abbiamo ricevuto nemmeno una telefonata. Siamo piuttosto in ansia, a casa. Lunedì mia madre ha provato a spedire un pacco con lenzuola e biancheria pulita, ma questo pacco sta tornando indietro per causa di forza maggiore. Questo è l'appello di una figlia che non ha notizie del padre da 8 giorni. Io sono d'accordo sul fatto che debba scontare una pena e anche sul fatto che vista questa situazione siano stati sospesi i colloqui, ma siamo davvero in ansia e non sappiamo a chi chiedere informazioni certe su come stia o quando lo faranno chiamare a casa”.

 

Agli appelli delle figlie si aggiungono quelli delle mamme: “Sono C., una mamma come tante che in questo momento ha un figlio in custodia cautelare nel carcere di X, in attesa di un processo che non si sa quando verrà celebrato. X è accusato di un reato patrimoniale (ancora da dimostrare) e non certo di reati violenti o di particolare allarme sociale. Ed è incensurato. Si stanno esponendo i detenuti tutti ad una infezione che può portare anche alla morte. È di dominio pubblico che le nostre carceri siano sovraffollate, che al loro interno non sia possibile tenere le distanze di sicurezza, né ci sono mascherine e guanti per tutti. Soffre da tanti anni di asma e di obesità. Per questa ragione abbiamo chiesto, attraverso i suoi difensori, non già di liberarlo, ma quanto meno di mandarlo a casa agli arresti domiciliari, fino a quando si terrà il processo. Non sto chiedendo di azzerare la sua posizione, non sto chiedendo di non fare un processo. Non sto chiedendo qualcosa di assurdo: sto implorando di non farlo morire in carcere per un contagio che non perdona. Già questa epidemia ci fa vivere sospesi e senza certezze, ma il saperlo lì a rischio ancor maggiore mi fa impazzire, come certamente fa impazzire altre madri come me! Non lo posso vedere, non posso parlargli perché può fare solo una telefonata a settimana di 10 minuti. Alla fine mi chiedo se non sia condannata più io e i miei familiari oltre a lui! Che ironia sarebbe se alla fine risultasse innocente e fosse morto per Coronavirus in carcere! Ci vuole coraggio nei momenti di crisi per prendere le decisione giuste, forse non accolte dal favore di tutti, ma che seguono valori veri e rimettono al centro l’Uomo. A nome di tante mamme, vi supplico affinché non abbiamo a piangere i nostri figli!”.

  

Parenti dei detenuti in rivolta a Poggioreale dopo la sospensione dei colloqui (Foto Fabio Sasso/LaPresse)


  

Dovrebbero uscire, dunque, per scongiurare il rischio che le carceri diventino focolai. Alcune lo sono diventate: come Bologna, dove molti detenuti hanno perso il diritto all'ora d'aria: “Il mio compagno mi scrive: 'Siamo sempre chiusi in 10 mq in 2 o 3 persone h24. Non ci fanno fare l'ora d'aria...non riesco più a dormire se non per 2 max 3 ore a notte....ho paura per questo virus e non mi sento al sicuro'. Io mi auguro che il mio compagno non si ammali di esaurimento nervoso !!!!”. A Bologna, come in tanti altri posti, durante le rivolte sono saliti sui tetti. Alle rivolte hanno fatto seguito i trasferimenti, che hanno trasferito anche il virus. In Friuli, per esempio, a Tolmezzo, dove alla notizia di arrivi da Bologna i detenuti hanno inscenato una protesta: “Salve, sono la figlia di un detenuto che si trova nella casa circondariale di Tolmezzo. Un paio di settimane fa alcuni detenuti sono stati trasferiti dal carcere di Bologna (risultato un focolaio) nel carcere dove si trova mio padre. Le guardie volevano portarli ai piani ma i detenuti non lo hanno permesso, perché volevano essere sicuri che non erano stati contagiati dal Covid 19. Soltanto oggi, a distanza di 15 giorni, viene comunicato ai detenuti che 5 uomini su 7 sono positivi al Covid. ... Non voglio che si arriva ad uno sciopero perché sappiamo tutti che chi ne paga le conseguenze sono solo i detenuti a colpi di manganello, come è già successo al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Per favore, aiutatemi”.

  

In questi giorni Torino, con i suoi circa 40 positivi, si è trasformato nel più grande focolaio penitenziario. E pensare che molti magistrati hanno negato i domiciliari perché in carcere si sarebbe più protetti dal virus. Argomento dei forcaioli d'ogni risma.

 

Il 20 aprile i detenuti positivi in tutta Italia erano 133, concentrati prevalentemente in 3-4 istituti. Molti, fortunatamente, erano asintomatici. All'inizio erano pochissimi. Poi il contagio ha fatto il suo mestiere. L'unico modo per minimizzare il rischio di creare focolai è ridurre il numero di persone detenute. Dai 61.230 del 29 febbraio si è passati ai 54.323 del 21 aprile: questo calo è dovuto per metà alla diminuzione degli ingressi, che sono di meno perché calano i reati e perché i magistrati fanno delle manette un uso più cauto; e per l'altra metà alle scarcerazioni per fine pena, per i benefici pre-esistenti e per quelli inseriti di recente. Ma se si vuole gestire in maniera accettabile la situazione bisogna scendere sotto la barra dei 47.000. Altrimenti il rischio è che a farne le spese non siano solo detenuti e poliziotti penitenziari, ma anche quelli di fuori, che di tutto hanno bisogno meno che di focolai che peserebbero sugli ospedali.


   

*Claudio Paterniti Martello è ricercatore dell'associazione Antigone