Una foto delle proteste dello scorso 9 marzo nel carcere di San Vittore (foto LaPresse)

“Più sicuri in carcere che fuori”, dice Gratteri. Ma a Bologna c'è il primo morto per coronavirus

David Allegranti

Anche il tribunale di sorveglianza di Pisa la pensa come il procuratore e nega la scarcerazione a due detenuti. Peccato che nell'istituto ci siano già 10 positivi tra agenti e sanitari. E il rischio è che i numeri a livello nazionale siano sottostimati 

Roma. “Si è più sicuri in carcere che fuori”, dice Nicola Gratteri, già ex aspirante ministro della Giustizia. “Si ha meno probabilità di infettarsi in carcere che non fuori”, spiega a Otto e Mezzo mercoledì 1 aprile il capo della procura di Catanzaro, spiegando che su 62 mila detenuti ci sono “solo 50 casi” di contagi per coronavirus, lanciandosi dunque in una discutibile statistica carceraria (davvero paragoniamo senza distinzioni la popolazione detenuta con quella a piede libero?). “Bisogna essere più rigorosi”, ha aggiunto. 

 

Così rigorosi che intanto c’è stato il primo detenuto morto, un settantaseienne deceduto a Bologna. Ma ci sono anche altri detenuti positivi, dice il Garante dei detenuti: “Nell’Istituto due persone detenute risultano positive e sono in isolamento, mentre altre quattro, che erano entrate in contatto con le persone ora in isolamento, sono in domiciliazione fiduciaria (quarantena)”. In carcere si muore insomma, altro che più rigore. Oltretutto sapere se quei “50 casi” citati da Gratteri siano veri o no (per il Garante sarebbero 21) è molto complicato visto che, come dice al Foglio il filosofo Emilio Santoro, “nelle carceri italiane si applica il ‘modello Corea del nord’. Le informazioni non circolano. Io capisco il diritto alla privacy e quindi è giusto che non si sappiano i nomi dei detenuti, dei medici e degli agenti di polizia penitenziaria malati. Ma che non si possa sapere neanche in quale sezione lavorava l’agente che si è ammalato è grave. Un agente di sezione incontra tutti i detenuti che stanno in quel settore. Se noi applicassimo i criteri che applichiamo per la popolazione libera, queste persone andrebbero messe in isolamento fiduciario. E quindi, per quanto riguarda i detenuti, in celle singole. Ma ora sono tutti in celle doppie”. Insomma per Santoro è evidente la “disparità di trattamento nel diritto alla salute tra chi sta fuori e chi sta dentro. Se io fossi un detenuto o un agente e un altro compagno della mia sezione si ammalasse e dopo 10 giorni risultassi positivo anche io, chiederei i danni all’amministrazione penitenziaria. Per non parlare dei detenuti in custodia cautelare. Le Asl e le amministrazioni penitenziarie dovrebbero garantire a chi sta dentro il carcere le stesse misure di distanziamento che vengono ordinate a chi sta fuori”. Per questo, dice Santoro, “servirebbero altre strutture apposite, naturalmente molto più complicate da gestire degli alberghi per la quarantena dei cittadini, perché servirebbero misure di sicurezza adeguate”. 

 

Ma per Gratteri & soci il problema non esiste, perché in carcere si sta meglio che fuori. Non è purtroppo soltanto l’opinione televisiva di un magistrato costantemente sotto i riflettori. A Pisa due detenuti del carcere Don Bosco, un venticinquenne straniero e un italiano di sessantuno anni, si sono visti negare la richiesta di scarcerazione dal tribunale di sorveglianza. Il magistrato, dottor Antonio Pirato, respingendo l’istanza presentata per conto di uno dei detenuti, ha scritto nella sua ordinanza, datata 20 marzo, che le “mere preoccupazioni di carattere sanitario dipendenti da un ipotetico contagio virale passivo” non sono sufficienti a concedere la detenzione domiciliare. “Peraltro nell’ambiente penitenziario appare meno probabile con in (sic!) un ambiente extracarcerario alla luce delle misure adottate in questi giorni a livello amministrativo e giurisdizionale proprio in funzione del massimo contenimento del rischio epidemiologico intramurario”.

 

Peccato che il 26 marzo, sei giorni dopo, Romeo Chierchia, segretario generale Ciisa Penitenziaria, abbia reso noto che c’erano tre contagiati nel carcere Don Bosco di Pisa, un medico e 2 agenti. Oggi Chierchia ha aggiornato il dato: i positivi al coronavirus sono saliti a dieci, 7 agenti di polizia penitenziaria e 3 dell’area sanitaria. A Pisa “il mancato utilizzo dei Dpi, Dispositivi di protezione individuale, ha esposto il personale a rischio”, dice Chierchia. Non è esclusa una azione penale nei confronti di chi ha sottovalutato il contagio, fanno sapere da Ciisa Penitenziaria. “Chi sbaglia deve pagare. A Pisa, intanto, all’agente in isolamento sanitario presso la caserma, non gli è stato consegnato un pasto caldo a causa della disorganizzazione della Direzione. La Regione Toscana fa sapere che non ci sono detenuti infetti al coronavirus, ma quanti tamponi sono stati effettuati nei confronti dei 3.473 detenuti? La diffusione è appena iniziata”.

 

L’allarme arriva da più parti. La notizia di Bologna, dice ancora il Garante dei Detenuti, “non ci coglie di sorpresa, data la situazione complessiva della diffusione dell’infezione nel nostro Paese, ma ci preoccupa seriamente. Come abbiamo più volte detto, la situazione di sovraffollamento delle carceri rappresenta un fattore di ampliamento del rischio. Occorre – lo diciamo ancora una volta – continuare a intervenire, ma con maggiore ampiezza e velocità per ridurre i numeri e la densità della popolazione penitenziaria”. Oggi le persone detenute presenti negli Istituti penitenziari sono 57.097 a fronte di una disponibilità reale di posti di 47.482. “L’apertura di reparti di isolamento in molti Istituti (210 reparti in 156 Istituti) non è abbastanza e soprattutto non garantisce il reale isolamento – essendo talvolta utilizzate stanze multiple e docce comuni – e quindi l’effettiva tutela della salute dei singoli e della collettività, come sancito dall’articolo 32 della Costituzione”. Ma in carcere si sta meglio. Garantisce il dottor Gratteri.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.