Senato, protesta del M5s nel 2014, Ddl voto di scambio politico-mafioso (LaPresse)

I barbari della giustizia

Ermes Antonucci

La riforma del voto di scambio è l’apice del populismo penale. Tutto è mafia. La Camera approva. La Lega tace e vota

Roma. L’Aula della Camera dei deputati ha approvato ieri, con i voti di Movimento 5 stelle, Lega e Fratelli d’Italia, la proposta di legge che modifica l’articolo 416 ter del codice penale, quello che punisce lo scambio elettorale politico-mafioso (il cosiddetto voto di scambio). Il testo tornerà ora al Senato, dove era stato originariamente proposto dal senatore del M5s Mario Giarrusso, noto ai più per aver rivolto il gesto delle manette ai parlamentari del Pd e per essersi definito con fierezza un “

" target="_blank" rel="noopener">manettaro”. La proposta di modifica del voto di scambio ricalca l’approccio giustizialista di Giarrusso, componendosi di un unico articolo in grado di sovvertire l’impianto penale del nostro paese. Innanzitutto, vengono inasprite le pene per i politici accusati di aver siglato accordi elettorali con esponenti mafiosi: si rischia una reclusione da 10 a 15 anni (contro la previsione attuale che va da 6 a 12 anni). Come nella migliore tradizione del populismo penale, l’aumento delle pene viene presentato come la migliore soluzione per contrastare condotte criminali, ma porta a risultati paradossali. La pena a una reclusione da 10 a 15 anni è infatti la stessa prevista per l’associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.). Non solo, se colui che ha accettato la promessa di voti risulta poi effettivamente eletto, la pena viene aumentata della metà. In caso di condanna, inoltre, segue anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. “La pena per il reato di  voto  di scambio  sarà più grave di quella prevista per chi è mafioso – ha notato in Aula il deputato di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto – C’è un disturbo della personalità politico-parlamentare in quest’Aula che meriterebbe l’intervento di uno psichiatra parlamentare”.

 

  

Ma le distorsioni più gravi si nascondono nei dettagli. Secondo il provvedimento approvato, ad esempio, per configurare il reato di voto di scambio non è necessario che l’appartenenza ai clan dei soggetti che promettono di procurare voti sia nota al politico che accetta la promessa. Come se un candidato impegnato in una campagna elettorale potesse conoscere l’identità e le relative fedine penali di tutte le persone che incontra durante gli incontri pubblici organizzati per cercare i consensi. Eppure basterebbe pensare che persino i due leader della maggioranza e vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, in passato sono stati immortalati in compagnia di personaggi poco raccomandabili o con precedenti penali, senza che ovviamente fossero a conoscenza dell’identità di chi li circondava. 

 

Il testo di riforma, poi, amplia ulteriormente l’oggetto della controprestazione di chi ottiene la promessa di voti, contemplando non solo il denaro e ogni altra utilità, ma anche “la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze della associazione mafiosa”, un’indicazione che appare ancor più generica e fumosa, tanto più se si considera che, secondo la giurisprudenza che si è affermata in materia, per configurare il reato del voto di scambio ormai si ritiene non necessaria neanche l’attuazione del presunto patto.

  

Il trionfo del metodo Davigo

Infine, ed è forse questo l’aspetto più inquietante, la proposta di legge estende la condotta penalmente rilevante aggiungendo, all’attuale promessa di procurare voti con le modalità mafiose, anche la promessa di voti che provenga da “soggetti appartenenti alle associazioni” mafiose. Ma sulla base di quali elementi un soggetto può essere definito “appartenente” a un clan? Il provvedimento non fornisce alcuna spiegazione, mentre il dossier predisposto dalla Camera lascia intendere che spetterà al solito giudice stabilirlo, aggiungendo che a tal fine “potrebbe essere necessaria una condanna definitiva per 416 bis del codice penale, oppure essere ritenuta ‘sufficiente’ l’applicazione di una misura di prevenzione in base al Codice antimafia”. Il chiarimento non è per nulla rassicurante: è noto, infatti, che le misure di prevenzione si basino su standard probatori di gran lunga inferiori ai provvedimenti adottati nel procedimento penale. Basta un semplice sospetto per far scattare misure di prevenzione personale o patrimoniale (come il sequestro o la confisca), poi spesso annullate proprio perché non fondate su prove. Insomma, più che il voto di scambio, la riforma sembra mettere al bando la ricerca del consenso per trasformare in realtà il verbo di un guru del grillismo di nome Davigo: non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti. E la Lega ancora una volta è lì a non battere ciglio di fronte a un Parlamento che gioca a distruggere lo stato di diritto.

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