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Battisti, l'esultanza e il rancore. L'occasione persa di un'Italia malata di propaganda

Maurizio Crippa

Il personaggio è umanamente detestabile, gli applausi di cui ha goduto, soprattutto in Francia, altrettanto; ma il diritto di scappare appartiene a chiunque. L’infame in ceppi e il paese marcio. La parodia delle grida per Brusca

"L’alito gli sa di birra”. Neppure i giornali mainstream hanno resistito al racconto osceno dell’infame in ceppi. Chi non è soddisfatto che Cesare Battisti dopo decenni di tracotanza sconti la sua pena, a parte qualche irriducibile di cattiva coscienza? Ma dovremmo essere soddisfatti nel segno del presidente della Repubblica: Battisti “sconti la pena per i gravi crimini di cui si è macchiato in Italia e che lo stesso avvenga per tutti i latitanti fuggiti all’estero”. Roma locuta, non era necessaria la parata a Ciampino, e “l’assassino comunista” di Salvini non rispetta la decenza di un pensiero politico. Invece, domina un’esultanza irrancidita. Chi si ricorda, ci fu l’esultanza per la cattura di Brusca, il killer di Falcone. Per la prima volta, forse, poliziotti e popolo esultarono per una cattura. Giorgio Bocca scrisse: “Lo spettacolo di Palermo”. Ma furono forti anche le polemiche, per quelle scene. Eppure era Falcone, era Brusca. Non un rottame della storia in ceppi. Di quella drammatica esultanza, il ministro con la felpa di Polizia è una parodia cupa specchio di un paese marcio.

 

Sul caso di Cesare Battisti, nel corso degli anni, anche su questo giornale si è scritto più volte, seppure senza alcuna morbosa passione, né ideologica né carceraria. Il personaggio è umanamente detestabile, al di là dei fatti giudiziari, gli applausi di cui ha goduto, soprattutto in Francia, altrettanto; ma il diritto di scappare appartiene a chiunque, non è questo che rende la vicenda di Battisti una storia cattiva. L’aspetto vergognoso di questi decenni è invece, certamente, nella posizione di alcuni (ma poi non moltissimi) politici, intellettuali, artisti che hanno insistito nel voler costruire l’immagine del perseguitato politico, dell’innocente braccato dalla giustizia di uno stato considerato, in modo sconsiderato, ingiusto e persecutorio. Una narrazione che non si attaglia all’uomo e alle sue azioni, né tantomeno corrisponde alla verità delle cose e della storia italiana, oltre ad essere offensiva per le vittime. E’ un errore intellettuale e ideologico, non staremo qui a discutere la buonafede, che si è avvalso della copertura di una lunga contingenza di politica internazionale.

 

Sarebbe il momento di dire, sulla scorta dell’equilibrio senza rancori dimostrato dal presidente Sergio Mattarella, che la cattura di Battisti dovrebbe essere sfruttata come l’occasione per ristabilire una verità storica e civile (“condivisa” è un aggettivo sempre di troppo, si può tralasciare). Invece siamo davanti a tutt’altro. A un ministro dell’Interno, con l’accompagnamento in seconda fila e in qualità di accompagnatore del ministro di Giustizia, che mette in scena una vendetta per immagini, “marcire in galera”, cavalcando i peggiori istinti che nemmeno i parenti delle vittime – merito a loro – hanno esibito. Una classe di politici, ora al governo, senza memoria storica, che parlano di assassini “comunisti” senza nemmeno la decenza di ricordarsi di Guido Rossa.

 

Ciò cui abbiamo assistito negli ultimi due giorni – ed era già cominciato nei mesi scorsi, con l’insistenza sbandierata sulla pacchia finita grazie al “caro amico Bolsonaro”, è un’occasione persa, volendo essere proprio eufemistici, per l’Italia per fare un passo nella direzione di uno stato di diritto consapevole di esserlo. Complice l’atteggiamento, soprattutto, della destra (si potrà cominciare a chiamarla estrema?) salviniana, di un ministro che si atteggia e parla come un vendicatore in maschera, è montata la canea che si è potuta leggere soprattutto sui giornali filo governativi che ora vanno a caccia dei complici, dei connivente, senza saper distinguere su cosa e quanta sia stata quella connivenza di natura ideologica. Basterebbe chiedersi: davvero esiste qualcuno oggi che non sia soddisfatto (si dice “avere soddisfazione” dalla giustizia) per la cattura di un latitante? E’ evidente che non è così. E’ evidente che non si può nemmeno imputare a tutta la sinistra (“comunisti”) quell’atteggiamento. La storia del Pci negli anni del terrorismo parla di un’altra cosa. Molte cose e molte persone in Italia debbono ancora fare 0dignitosa ammenda per la propria storia, ma sostituire per scopo propagandistico le ragioni di storia e giustizia con un concetto di vendetta a rancor di popolo, è grave.

 

C’è la faccenda dell’esultanza. La differenza tra l’esultanza e il rancore. E torniamo per un attimo alla cattura di Giovanni Brusca a Palermo, giugno 1993. I carabinieri col passamontagna fuori dal finestrino, la gente che urlava per strada. Ancora oggi è un evento non facile da commentare, per le polemiche che suscitò già allora e per le complicazioni politiche e giudiziarie che seguirono e di cui qui non mette conto parlare. Ma basterebbe rileggere Giorgio Bocca, quel giorno, su Repubblica, per farsi un’idea. Era un’Italia in stato d’emergenza, c’erano stati i fischi allo stato ai funerali di Giovanni Falcone ucciso dalla mafia. Guerra in corso, nemico catturato. Nel corpo dei corpi dello stato e della gente era avvenuto qualcosa di inedito, di facilmente o difficilmente comprensibile: ma di evidente.

 

Oggi la felpa infilata senza correre un rischio, pura propaganda, da un ministro dell’Interno non ha nulla a che vedere con un’operazione di polizia ben condotta in Sudamerica, la travalica in un gesto retorico vendicativo, propagandistico e cinico. Inconsapevole della storisa. Cesare Battisti è stato catturato e consegnato alla giustizia italiana dopo anni di latitanza. Basterebbe ascoltare le parole di Mattarella, “sconti la pena per i gravi crimini di cui si è macchiato in Italia e che lo stesso avvenga per tutti i latitanti fuggiti all’estero” per capire che sono sufficienti. Punto a capo.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"