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Chi difendeva Battisti non si è accorto di proteggere un assassino indifendibile

Guido Salvini

L'intellighenzia radical chic e quel delinquente comune che si era “politicizzato” in carcere sino a diventare uno dei capi dei Pac, un’accozzaglia di persone che per la loro insensata ferocia erano tenuti a distanza persino dalle Br

Cerchiamo di mettere dei punti fermi, a mente un po’ più fredda, sulla vicenda di Cesare Battisti.

 

Battisti non è certo un martire né un perseguitato politico. Da delinquente comune si era “politicizzato” in carcere sino a diventare uno dei capi dei Proletari armati per il comunismo, un’accozzaglia di persone che per la loro insensata ferocia erano tenuti a distanza persino dalle Brigate Rosse e dai gruppi affini.

 

Ricordo bene la storia e i processi dei Pac. Mio padre all’inizio degli anni Ottanta presiedeva la Corte d’assise che pronunciò una delle sentenze per l’omicidio dell’orefice Torregiani. Si viveva in un clima di paura. I Pac erano infatti specializzati più che nell’individuare obiettivi politici – come le Brigate Rosse – nel porre a segno le loro vendette personali: sparavano a commercianti che avevano reagito durante rapine, alle guardie delle carceri dove qualcuno dei loro militanti era stato detenuto, ai medici interni delle carceri che avevano fatto il loro mestiere. Li chiamavano i terroristi “giustizialisti”. Roba da brividi.

 

Non credo che nessuno dell’intellighenzia radical chic che lo ha aiutato e coccolato in Francia sappia queste cose e abbia letto una sola pagina di quei processi. La loro superbia intellettuale ha impedito di capire che non era un ragazzetto travolto in storie più grandi di lui ma un indifendibile.

 

A chi non voleva capire era inutile spiegare che, per i delitti commessi negli anni di piombo, Battisti e gli altri sono stati giudicati con tutte le garanzie difensive anche se latitanti e con ben tre gradi di giudizio, che le sentenze che lo hanno condannato, per quattro omicidi, gambizzazioni e rapine e un ragazzo ridotto in carrozzella, sono alte come guide del telefono.

 

Quanto al Brasile che pure lo ha protetto per molti anni, bisogna riconoscergli almeno un’attenuante culturale. La si comprende se si pone attenzione al fatto che il Brasile ha una storia lunga e anche recente di banditismo giustizialista, soprattutto rurale, i cui protagonisti erano pseudogiustizieri al confine tra crimine e ribellismo politico e spesso ottenevano, come i nostri briganti, anche ammirazione. Per questo Battisti ha avuto la fortuna di trovare a lungo il posto giusto in cui rifugiarsi. Al Brasile, che per molti anni ha rifiutato l’estradizione di Battisti, andrebbe comunque ricordato che nel nostro paese per tutti ci sono processi regolari e non le esecuzioni extra giudiziarie a opera di squadroni della polizia che lasciano cadaveri ai cigli delle strade.

 

Battisti era evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 mentre erano in corso i processi e ha compiuto la sua scelta. Quella di sottrarsi alla giustizia e di vivere una lunga latitanza, forse non dorata ma comunque agiata, per buona parte e la parte migliore della sua vita. Una scelta che comportava il rischio di essere catturato anche a molta distanza di tempo. E’ bastato il cambio dello scenario politico in Brasile, una coincidenza fortunata per il nostro ministro dell’Interno.

 

Migliaia di ex terroristi rossi e neri condannati in quell’epoca, grazie anche ai benefici della dissociazione e a quelli previsti dall’ordinamento penitenziario, non sono stati sepolti in uno Spielberg ma sono tutti ormai tornati in libertà e si sono reinseriti nella vita civile con tempi e modi che non suonano come persecutori ma che semmai hanno causato proteste dei parenti delle vittime. Se non fosse evaso, anche Battisti sarebbe libero. Inizia invece ad espiare un ergastolo a più di sessant’anni. Ma, senza infierire su un uomo in catene e ormai malmesso, è stata una scelta sua. Ci vorranno molti anni prima che possa chiedere qualche minimo beneficio. Se sarà meno sprezzante e dimostrerà di essere almeno un po’ cambiato.

 

I latitanti che avrebbero cose da dire

Purtroppo la cattura di Battisti poco avrà da dirci sulle pagine rimaste ancora oscure degli anni di piombo. Delle sciagurate imprese dei Pac, che comunque erano una scheggia minore del terrorismo, si sa tutto.

 

Ci sono invece i latitanti, molto meno noti di Battisti, che potrebbero chiarire le storie tragiche di cui sono stati protagonisti.

 

Di Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio Calabresi, quasi non si parla. Dopo la sua fuga vive protetto all’estero, probabilmente in Francia. Di quell’omicidio, nonostante le condanne, non si sa tutto, non si conosce se non in parte come fu deciso e organizzato e nemmeno tutta la fase esecutiva. Pietrostefani è a conoscenza di quei segreti e se tornasse in Italia potrebbe rivelarli. Non dimentichiamo che quello del Commissario non fu un crimine qualsiasi, è stato il primo omicidio politico, legato a piazza Fontana e ideato prima ancora che iniziasse il terrorismo con i suoi crimini seriali. Alessio Casimirri, condannato per l’omicidio Moro e anche per l’omicidio del giudice del ministero Girolamo Tartaglione cui aveva personalmente sparato in testa, vive da anni in Nicaragua. Gestisce un grazioso ristorante sul mare, “Il covo del sub”. Da sempre anche lui ha goduto di protezioni, forse non solo in Nicaragua, di cui ha ottenuto anche la cittadinanza, ma anche nel nostro paese. Era presente in via Fani e potrebbe fornire la chiave per comprendere quei 55 giorni, di cui molti passaggi restano oscuri come il recente lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro ha dimostrato. Bisogna continuare da lì.

 

Un’ultima annotazione. Il mio omonimo ministro dell’Interno avrebbe potuto evitare di presentarsi in aeroporto all’arrivo di Battisti. E’ stato uno spot eccessivo e di cattivo gusto. Nessun altro ministro dell’Interno, che si ricordi, lo avrebbe fatto. Ma questa è la politica di oggi.